Titolo: You can sleep, Mr. President
Fandom: Heroes
Pairing: Nathan/Peter
Rating: PG-13
Conteggio parole: 1502 (W)
Prompt: 6. old habits die hard @
syllablesoftime [
Tab ♥]
Note: Nuovo episodio della serie AU You can sleep. Puntate precedenti:
+
You can sleep while I drive+
You can sleep while I drabble+
You can sleep while I watch you Due mesi dopo You can sleep while I drive
“Avrebbero fatto meglio ad eleggere te” ti dice mentre i suoi pollici affondano tra i muscoli contratti delle tue spalle. In qualche momento tra la sua assunzione alla Primatech e la tua ultima consegna, Peter sembra aver deciso che quello delle elezioni non è più un argomento di conversazione off-limits.
“Non sarebbe cambiato niente.”
“Non al Congresso. Alla Casa Bianca.” Peter preme i polpastrelli con energia, e tu puoi quasi immaginarlo, anche se non lo vedi, con la lingua stretta tra i denti. “Tu non avresti fatto tutto questo schifo.”
“Io non mi sarei candidato alla presidenza.”
Le dita ti stringono le spalle mentre i pollici risalgono sul retro del tuo collo e tu concentri metà delle tue energie nello sforzo di non sospirare rumorosamente.
“Perché no?”
Era uno dei progetti di tua madre. Da come ne parlava, sembrava che fosse stato stabilito ancor prima della tua nascita. C’è stato un periodo, quando sei tornato dalla Bosnia e la parola eroe continuava ad aleggiarti intorno come un profumo scadente, in cui ci hai creduto anche tu. Tua madre diceva che sarebbe stata la cosa migliore che potesse capitare all’America dai tempi di Franklin Delano Roosevelt.
“Tu mi avresti votato?” domandi, lanciando un’occhiata a Peter da sopra la spalla.
Lui sembra rifletterci su con molta attenzione. “L’altro sarebbe stato peggio” decide infine, in tono ponderato.
“Grazie.”
“Voglio dire,” riprende, “tu non avresti messo su tutta questa storia delle Squadre e dei Campi e del numero speciale, no? Tu sei uno di noi. Voglio dire, non avrebbe avuto senso. No?”
Ridacchi. “Ah, Peter, è bello vedere che tutta la mia morale per te si riduce al mio interesse personale.”
“Tu non hai una morale” replica Peter, imperturbabile. E poi aggiunge: “Ti scopi tuo fratello”.
“Tu non sei mio fratello.”
“Sulla carta sì. E sono minorenne.”
“Sulla carta no. Che vogliamo fare?”
“Potremmo dare la colpa a Bennet.” Ti stringe leggermente le ginocchia ai lati dei fianchi e le sue mani scivolano sul tuo petto. Peter si prende il polso della sinistra nella destra, strofinando la guancia contro la tua.
“Sono d’accordo.” Gli appoggi una mano sul ginocchio, accarezzandolo piano. “È sempre colpa di Bennet.”
Peter ti punta il mento sulla spalla, studiando il tuo viso a distanza ravvicinata, così vicino che con la coda dell’occhio la sua faccia ti sembra una tavolozza di colori sfocati.
“Tu avresti fatto funzionare le cose. Questa cosa. Loro e noi. Insomma, sentimi. Loro e noi, sembra… sembra un film del cazzo. Non doveva andare così. Tu non avresti lasciato che andasse così.”
Apri la bocca per dire che un uomo solo non può cambiare il corso della storia, e che non pensi che mettere te su quella poltrona avrebbe fatto la differenza. Che certe cose forse semplicemente sono destinate ad accadere, in un modo o nell’altro. In un mondo o nell’altro.
“No” mormori invece. “Non l’avrei fatto.”
Peter ti passa una mano tra i capelli, posandoti un bacio sulla mascella. Puoi sentirlo sorridere mentre dice allegro: “E io sarei stato il tuo segretuccio sporco”.
“Non ci saremmo incontrati” gli ricordi.
“Certo che sì” proclama Peter, con convinzione. “Io sarei venuto a prenderti.”
Sogni di essere il Presidente. La bomba è esplosa, e New York è come la ricordi: un cumulo di macerie. È l’otto novembre 2007.
Qualcuno ti sta dicendo che dovrete fare attenzione, una volta a terra - alcuni dissidenti hanno minacciato contestazioni. Tu ti chiedi come possano avere voglia di contestare in un giorno come questo, e cosa ci sia poi da contestare. Non è stata colpa tua. La bomba, non è stata colpa tua. Heidi e i bambini sono vivi, sani e salvi a casa, a Washington D.C., eppure senti un dolore strano in mezzo al petto, come una dolorosa assenza di suono lì dove dovrebbe esserci il battito. E non sai perché.
Peter non c’è, e a pensarci, non c’è motivo per cui dovrebbe esserci. Non ricordi di aver mai conosciuto un ragazzo di nome Peter, eppure il solo pensiero di un ragazzo di nome Peter basta a stringerti lo stomaco. In un’altra vita potrebbe essere stato tuo figlio. In questa, la sua faccia è una tavolozza di colori sfocati e la sua voce un’altra assenza di suono che ti vibra nelle orecchie.
Mentre il jet privato completa la manovra di atterraggio, tu senti la nausea risalirti l’esofago, ma stringi i denti e chiudi gli occhi finché non la ricacci indietro.
“Signor Presidente?” Apri gli occhi. Il portellone è aperto. Ti stringi nel tuo cappotto pesante col bavero alzato, e al margine della coscienza ti sorprendi che la lana ti punga le guance sbarbate, anche se non ricordi di aver mai esibito una rasatura meno che perfetta. Fuori sta piovendo, e il tuo assistente si affretta ad aprire un ombrello per ripararti dagli schizzi pungenti come lame di coltello.
Durante tutto il tragitto in macchina sei distratto. Il mondo fuori dal finestrino sgocciola grigiastro e non ha la consistenza nitida dei sogni quando li vivi, ma quella fumosa e incerta dei sogni quando li ricordi al mattino. Ma tu, ovviamente, non sai che è un sogno. Tu pensi che sia la pioggia. La pioggia complica sempre tutto.
“Signor Presidente.”
C’è una folla, in Kirby Plaza, che non entra nella piazza - che invade i sentieri nerastri delle strade con l’asfalto scorticato, le orme rettangolari delle fondamenta dei palazzi, che si allarga a perdita d’occhio e più ti avvicini più sembra moltiplicarsi, e se anche volassi, ora, per abbracciarla tutta con lo sguardo dovresti salire così in alto che la pioggia ti si congelerebbe intorno al cappotto.
Tu appoggi le mani ai bordi del tuo podio. Il monumento alle vittime dell’esplosione è una lastra di marmo scuro con le incisioni bianche che luccicano debolmente sotto la pioggia. La piazza è piena di ghirlande di fiori bianchi, rossi e blu.
Le parole del discorso escono nitide e precise dalla tua bocca, ma non ti stai ascoltando.
In prima fila c’è un uomo con una cicatrice diagonale sulla faccia e le labbra strette in una linea sottile, gli occhi grandi e scuri fissi su di te.
Ci metti un po’ ad accorgerti che ti sei interrotto a metà di una frase. L’uomo con la cicatrice ora ha un’espressione curiosa, le labbra dischiuse abbastanza perché tu possa notare l’asimmetria della sua bocca. Prima che tu te ne renda conto è accanto a te sul palco, a pochi centimetri dalla tua faccia.
“Ciao, Nathan.”
Lo guardi senza capire. Da vicino, puoi distinguere tutte le sfumature di colore dello sfregio, la transizione morbida dal rosa vivo del centro al bianco sfumato dei bordi.
“Sono Peter.”
“Tu non sei Peter” replichi prima di pensarci. “Peter ha diciassette anni.”
La smorfia dell’uomo con la cicatrice sembra la parodia grottesca di un sorriso triste. “Sono cresciuto in fretta.”
La folla intorno a voi sembra congelata come l’esercito di soldati di terracotta di quella tomba cinese.
“Sono tuo fratello” dice Peter che non è Peter, e c’è un che di accusatorio nel modo in cui lo dice, come se la cosa sottintendesse un grave torto da parte tua.
“Io non ho fratelli.”
“L’hai detto anche l’ultima volta.”
“Io non ti ho mai visto.”
“E quella prima. E quella prima ancora.”
“Abbassa la voce.”
“Non possono sentirci. Sono tutti...”
Tu ti volti, attraversato da un brivido, solo per scoprire che la piazza è completamente vuota, abbandonata alla solitudine del suo monumento ai caduti.
“... morti.”
La pioggia sgocciola sulle tue guance e dalle guance sulla tua giacca.
“Tu lo sapevi. Sapevi che sarebbe successo. E non hai fatto niente per impedirlo.”
“Io non...” C’è il nome di tua moglie inciso nel marmo, inzuppato di pioggia. “No.” Ti bruciano gli occhi. “No.” Se l’avessi saputo l’avresti salvata, no? Li avresti salvati tutti. Almeno loro. “Non lo so. Non ricordo.” Il volto di Peter è curiosamente sfocato, ora. “Mi dispiace.”
“Anche questo” mormora Peter, il tono ora gelido come il marmo, come la pioggia, come casa tua quando rientri a notte fonda inciampando nei vuoti delle bottiglie, “lo dici ogni volta.”
Ti riscuoti perché l’anta del frigorifero è gelata contro la tua fronte. Ti passi una mano sulla faccia, imbarazzato. Era dai tempi dell’esplosione e di quella terribile insonnia che non ti capitava di addormentarti in piedi.
Mandi giù un bicchiere di latte e richiudi il frigo, infreddolito, sentendo le gambe molli e un cerchio alla testa.
Peter si è allargato in tutto il letto, a braccia aperte come in croce. Lo spingi dolcemente verso la sua metà e lui si rannicchia in un gomitolo umano con un ronfo che, giureresti, sembra tanto un rumore di fusa.
Tu non gli avresti mai fatto del male.
Ti giri dalla tua parte senza vedere l’uomo fermo in piedi vicino al tuo letto. Ha una cicatrice diagonale sulla faccia e le labbra strette in una linea sottile, gli occhi grandi e scuri. Quando Peter striscia nel letto verso la tua parte, borbottando nel sonno, lui chiude gli occhi e scompare.