[Sherlock Holmes] All that is left, all that I hide (2/3)

Jun 17, 2010 22:41

Titolo: All that is left, all that I hide
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson, Watson/Mary
Rating: NC-17
Conteggio parole: 17.700 (W)
Parte: 2/3
Note: Cominciata un anno fa per un progetto con laurazel che purtroppo non è andato in porto, l'ho finita da qualche mese ma la posto solo ora che sono riuscita a trovare un po' di tempo. È lunghetta, angsty e parla dei due temi che mi riescono più ostici in questo fandom: il matrimonio di Watson e la cocaina. Ma siccome almeno una fic su queste due cose l'hanno scritta tutti, eccoci qua.
Riassunto: Autunno 1890. Watson ha un matrimonio da gestire e un caso per Holmes. Holmes ha una dipendenza da gestire e un problema con Watson. Nessuno dei due è molto bravo a fare quello che deve fare. Seguono angst, complicazioni, e un giallo.

Parte 1

Il mattino seguente, il campanello del mio studio suonò prima dell’orario di visite, e quando la cameriera venne a dirmi che si trattava di un uomo e che quest’uomo aveva detto di essere Sherlock Holmes, confesso che ebbi un tuffo al cuore. Non avevo creduto di rivederlo così presto. Le dissi di farlo accomodare, ma la ragazza tornò dopo un minuto a riferirmi che Mr. Holmes preferiva attendere sulla soglia, e non sarebbe entrato.

Mi affrettai alla porta. “Holmes!” gli dissi, trovandolo effettivamente fermo sull’uscio. Era un altro uomo rispetto all’ombra trasandata del giorno prima: sbarbato e pettinato e impeccabile nell’abbigliamento, con quell’aria austera che era il suo tratto caratteristico. Anche se la visione dello stato in cui l’avevo sorpreso non cessava di sovrapporsi a questa, mi confortò vedere il mio amico rassomigliare di nuovo a se stesso.

“Non vuoi entrare? Mary è di sopra. Beth, chiama la signora, per favore.”

“Non è necessario” disse Holmes, sbrigativo. “Non sono qui in visita di piacere, ma per richiedere la tua assistenza. Ci sono degli sviluppi della massima importanza. Ho un appuntamento con Hopkins tra mezz’ora e vorrei che mi accompagnassi.”

“Holmes, ho delle visite fissate per la mattina. Non posso…”

“Disdicile.”

“Holmes, è il mio lavoro.”

“Hai a cuore la sorte di Isa Whitney?”

Sospirai. Quando Holmes era nel pieno delle sue forze, ogni discussione era inutile. “Lasciami qualche minuto. Vedrò quello che posso fare.”

“John? C’è qualche… oh.”

Mi voltai, trovando l’esile figura di mia moglie in cima alle scale. Mi sovvenne che Mary e Holmes non si erano più rivisti dai tempi del caso del tesoro di Agra, quello che avevo pubblicato sotto il titolo de ‘Il segno dei Quattro’. Ma la figura del mio amico era inconfondibile, e vidi un lento sorriso cordiale affiorare alle labbra di mia moglie.

“Mr. Holmes!” esclamò, affrettandosi giù per le scale. “Sapesse che immenso piacere è rivederla. Oh, è una cosa talmente inaspettata… Tesoro, avrei voluto che mi dicessi che Mr. Holmes sarebbe venuto questa mattina.”

“L’avrei fatto certamente, se l’avessi saputo” le risposi, scoccando un’occhiata al mio amico.

“Ma perché resta sulla porta, caro Mr. Holmes?” proseguì mia moglie. “Stavamo giusto sedendoci a tavola per la colazione. Si unisca a noi.”

Holmes le rivolse un sorriso di cortesia, breve ma garbato, e non si mosse. “Le assicuro che il piacere è interamente mio, Mrs. Watson. Purtroppo devo declinare l’invito e arrecarle un torto per il quale, ne sono certo, la sua stima nei miei confronti subirà un duro colpo. Sono venuto a rubarle suo marito.”

Mary lo guardò con aria leggermente sorpresa ma subito comprensiva. “Riguarda il povero Isa Whitney, non è vero? Ha qualche notizia?”

“Sono stati fatti dei progressi” ammise Holmes, in tono spicciolo. “Al momento non posso dirle di più.” Mi guardò, poi estrasse l’orologio dal taschino e lo consultò con un gesto eloquente.

Io sollevai le mani in segno di resa. “Lasciami sistemare gli impegni della giornata, Holmes. Sarò di ritorno tra un minuto. Mary, non ti dispiace, vero…?”

“Naturalmente no, tesoro” rispose mia moglie. “Se può servire ad aiutare quella povera coppia sfortunata.”

Tornai nel mio studio e diedi disposizioni al mio assistente perché avvisasse i pazienti della mattina che ero stato costretto a posticipare i loro appuntamenti. Fortunatamente si trattava solo di un paio di visite di controllo, nulla di grave o urgente.

Quando tornai nell’ingresso, Holmes e mia moglie erano ancora in piedi vicino alla porta, ma Holmes si era deciso ad abbandonare la soglia. Feci in tempo a udire Mary dirgli con voce vibrante di soddisfazione (e un altro sentimento che non mi riuscì di identificare): “Siamo molto felici, Mr. Holmes, ed è tutto merito suo”. Le labbra di Holmes erano strette in una sottile riga orizzontale.

“Eccomi, Holmes. Possiamo andare” dissi recuperando il mio cappotto dall’appendiabiti.

“Fai attenzione, tesoro” mi raccomandò Mary. Mi prese una mano nella sua e si sollevò un poco sulle punte per appoggiarmi un bacio affettuoso sulla guancia.

La tensione non svanì quando Holmes ed io restammo soli in strada, ma si alleggerì considerevolmente. Sul momento nessuno dei due parlò. Holmes stese il braccio per richiamare una carrozza libera e diede l’indicazione al vetturino di condurci all’obitorio.

“All’obitorio, Holmes?”

“Questa mattina sul presto mi sono premurato di comunicare all’ispettore Hopkins che mi sto occupando del caso. Mezz’ora fa, Hopkins mi ha inviato un telegramma avvisandomi del recupero di un cadavere dal Tamigi” mi spiegò. “Potrebbe essere Whitney, ma necessito della tua presenza per identificarlo con assoluta certezza. Personalmente ho visto l’uomo una volta sola e con pochissima luce.”

Annuii. “Spero che si siano sbagliati” dissi piano. “Povero ragazzo.”

“Lui o un altro, non fa differenza nel bilancio complessivo.”

Lo guardai, vagamente sconcertato dal gelo della sua voce. Quando voleva, Holmes sapeva essere sommamente cinico e distaccato, ma era la prima volta che lo udivo parlare in termini tanto sprezzanti di una vita. Per quanto fredde e scostanti fossero le sue maniere, non avevo mai creduto che potesse nutrire alcunché di simile a tanta arida indifferenza nei confronti del genere umano.

“Ne ha per sua moglie, Holmes. La povera donna sarà distrutta dal dolore.”

“Per un periodo, certo. Ma alla fine si consolerà. Le donne - e gli uomini - sono lesti a rimpiazzare i posti vacanti nel loro cuore.”

Sospirai e mi volsi dalla parte del finestrino, senza rispondere.

Nel 1890 la fama del mio amico rifulgeva come un astro, eppure ancora molti, a Scotland Yard come nel resto del Paese, lo consideravano un semplice galoppino tuttofare di Gregson e Lestrade, un dilettante col vizio di fare le cose a modo proprio e un’atroce insofferenza per le regole. Altri invece, ed erano la maggioranza, ne riconoscevano gli indubbi meriti, perché avevano avuto modo di incontrarlo o perché prestavano fede ai miei resoconti delle sue imprese piuttosto che a quelli dei giornali.

È inutile dire che i membri della prima categoria non nutrivano la minima simpatia nei miei confronti, perché a loro dire i miei racconti gettavano discredito sul corpo di Scotland Yard sminuendone i rappresentanti più illustri - Tobias Gregson e in particolare Lestrade, la cui ascesa nelle gerarchie della Polizia Reale appariva a quel tempo inarrestabile.

L’ispettore Stanley Hopkins, tuttavia, apparteneva alla seconda categoria. Uomo franco e di grande intelligenza, aveva fatto carriera rapidamente e senza ostacoli, ottenendo il grado di ispettore alla giovanissima età di ventisei anni. Gli aveva giovato la collaborazione di Sherlock Holmes a un certo numero di casi che gli erano stati assegnati, e anche per questo nutriva per il mio amico l’ammirazione più sconfinata e cercava di applicarne i metodi con la dedizione di uno scolaro devoto al maestro.

Quando vi giungemmo, Hopkins era già di fronte all’ingresso dell’obitorio. “Oh, Mr. Holmes! Dottore. Vi stavo aspettando” disse stringendoci la mano. “Questo caso sembra aggrovigliarsi ogni momento di più, Mr. Holmes” confessò mentre ci scortava attraverso i corridoi. “All’inizio, quando abbiamo recuperato il corpo, abbiamo pensato a una rissa finita male, ma sembra molto più complicato di così. Lo vedrete. Ah…” Ci eravamo fermati di fronte a una porta sorvegliata da un giovane agente dall’aria distratta, che scattò sull’attenti quando vide Hopkins avvicinarsi. “I signori sono con me” gli disse con familiarità, e il ragazzo si fece da parte per lasciarci passare.

“Fate attenzione agli scalini” ci raccomandò Hopkins, avviandosi per primo lungo la stretta scalinata che si apriva al di là della porta. “Qualcuno è… Dannazione.” Si sentì il legno scricchiolare paurosamente, e Hopkins incespicò per spostarsi in tutta fretta su un gradino sano.

“Perché tanto nervosismo, Hopkins?” gli domandò Holmes.

“È solo una sensazione, Mr. Holmes” rispose l’ispettore, quasi in tono di scusa, come se parlare di semplici sensazioni al cospetto del maestro della deduzione fosse una cosa di cui vergognarsi. “Spero di sbagliarmi. Ho l’impressione che abbiamo aperto un’intera scatola di vermi e che c’è molto di più dietro a questo caso di quanto non abbiamo creduto al primo sguardo. Be’, di quanto non ho creduto io, probabilmente. Lei, Mr. Holmes, senza dubbio si sarà già fatto un quadro molto preciso di tutta questa storia.”

“Questo lo verificheremo coi nuovi dati in suo possesso.”

Ci trovavamo in un piccolo scantinato dall’aspetto spoglio, malamente illuminato. L’aria era gelida e al tempo stesso viziata, pregna di un intenso odore di muffa che si emanava dalle pareti e si mescolava a un altro, più acre e dotato di una ripugnante nota dolciastra. Conoscevo quell’odore fin dai tempi dell’università: era il puzzo di un cadavere in decomposizione.

Vi erano cinque tavoli nella stanza, ma solo uno, il primo venendo dalla scala, era occupato. Un corpo vi era stato deposto supino e pietosamente coperto da un lungo lenzuolo, ma la suola di uno stivale da uomo emergeva da sotto la stoffa. Sul pavimento lungo il tragitto scorsi diverse chiazze d’acqua.

“Dopo di te, dottore” disse Holmes. Io mi accostai al tavolo e afferrai un lembo estremo del lenzuolo, scostandolo dal volto dell’uomo e lasciandolo ricadere inerte sul suo petto. A quel punto il fetore si fece insopportabile, e dovetti estrarre il fazzoletto dalla tasca e premermelo con forza sul viso.

Era Isa Whitney, senza possibilità d’errore. Aveva i suoi capelli biondo cenere troppo a lungo privati delle cure di un barbiere, il suo naso diritto, la faccia lunga e vagamente cavallina, perfino quel piccolo neo scuro all’angolo della bocca. Chiusi gli occhi, impegnando per un momento tutte le mie energie nello sforzo di dominarmi. Aveva solo ventisette anni.

“Watson?” mi richiamò Holmes, a bassa voce. Mi appoggiò una mano sulla spalla, e questo bastò a calmare il mio spirito.

“È lui” dissi col tono di voce più neutro che potei.

“Mi dispiace, ragazzo mio.”

Scossi la testa, ma sapevo che nonostante le parole rudi che mi aveva rivolto nella carrozza, lo pensava davvero. Raddrizzai le spalle e misi da parte ogni inutile sentimentalismo, come egli l’avrebbe definito, per rendermi utile alle indagini. “C’è qualcosa di strano in lui.”

La sua mano abbandonò la mia spalla e Holmes girò intorno al tavolo per avere una migliore visuale del volto del povero Whitney. “Esponi le tue osservazioni, ti prego.”

Mi chinai per osservarlo meglio. Il viso di Whitney era enfiato e violaceo, le labbra gonfie e spaccate almeno in due punti; la tempia sinistra era lacerata da un orrendo taglio che conservava ancora, intorno ai bordi, qualche modesta traccia di sangue coagulato. Così si poteva notare su tutto il lato sinistro del volto, dove a tratti si distinguevano piccole macchie incrostate di quella che doveva essere stata un’emorragia copiosa. Presi un ampio respiro nel fazzoletto e me lo rimisi in tasca. Scostando ulteriormente il lenzuolo, scoprii il petto di Whitney. La stoffa del panciotto e quella della camicia erano umide e fredde come se l’avessero appena ripescato dalle profondità del Tamigi. Sulla camicia immacolata si notavano alcune macchie di sangue.

“Non è morto annegato. Non c’è traccia di schiuma nelle narici o nella bocca e la ferita sulla tempia ha sanguinato molto a lungo. È molto profonda ed estesa, in una zona ricca di vasi sanguigni. Il sangue ha avuto modo di versarsi e coagulare su buona parte del lato sinistro della faccia. A giudicare dalla disposizione delle macchie, mi sembra che sia rimasto sdraiato sulla schiena per un certo tempo. C’è del sangue dentro l’orecchio, vedete? Se si fosse procurato la ferita dopo la morte, difficilmente avrebbe sanguinato, e il sangue si sarebbe comunque disciolto nell’acqua.”

“Quanto tempo stimeresti che sia passato dalla morte?”

Gli denudai il torace e l’addome. Era di un colore pallido e malsano, tendente al verde; il petto era solcato da numerose ramificazioni sanguigne che correvano lungo le vene. “È già in stato di putrefazione, per quanto non troppo avanzato. Il corpo è gonfio, specialmente l’addome e la faccia, e i globuli rossi si sono aperti riversando l’emoglobina nelle vene. In condizioni normali, direi tre giorni, forse qualcosa di più, ma il corpo non era esposto all’aria e di questa stagione l’acqua è molto fredda, un fattore che rallenta il processo di decomposizione. Non lo so. Sei, sette giorni. Forse di più, forse di meno.”

“Splendido” disse Sherlock Holmes, che pareva del tutto indifferente al tremendo lezzo che si levava dal cadavere. “Un’analisi impeccabile, dottore.”

“Grazie, Holmes” risposi, sentendomi improvvisamente molto stanco.

“Questo caso inizia a diventare estremamente misterioso” disse Holmes, scostando del tutto il lenzuolo. Tirò fuori dalla tasca la sua lente d’ingrandimento, con la quale si diede a studiare gli abiti di Whitney. “Il balordo con cui ho parlato sembrava assolutamente sicuro di aver visto quest’uomo salire in una carrozza pubblica.”

“Nello stupore dell’oppio, Holmes?” ribattei.

“Nello stupore dell’oppio, certo” rispose Holmes, con impazienza. “E tuttavia con sorprendente capacità di osservazione, se è stato in grado di notare la singolare mancanza di una ghetta al piede sinistro.” E indicò la scarpa incriminata, effettivamente priva della sua ghetta.

“Se ha preso una carrozza per tornare a casa, è improbabile che sia rimasto coinvolto in una rissa di strada” ragionai. “A meno che non abbia dato l’indirizzo sbagliato, o il vetturino non l’abbia fatto scendere prima di arrivare a destinazione.”

“Mmm.”

“C’è dell’altro, Mr. Holmes” disse Hopkins, quasi timidamente. Aveva osservato la scena fino a questo punto chiuso in un silenzio quasi reverenziale, e quando parlò lo fece come se avesse paura di rompere un incantesimo.

“Ah, sì?” ribatté Holmes, con improvviso interesse. “E perché non l’ha detto prima, Hopkins, per l’amor del Cielo?”

Hopkins esitò. “Si tratta di uno dei nostri agenti, Mr. Holmes. Ha visto Whitney alcune notti fa, durante una ronda. Immaginando che volesse fargli qualche domanda, gli ho dato ordine di restare a disposizione.”

“Benissimo” disse Holmes, e Hopkins si illuminò come se gli avesse fatto un complimento.

Holmes, e in misura molto minore io stesso, eravamo frequentatori discretamente assidui di questa stazione di polizia e di numerose altre della città. Holmes in particolare fu accolto da molti sguardi curiosi.

L’agente Jarvis ci riferì quanto segue: “Ero di ronda a Southampton Row, signore, quando ho visto un uomo in tutto e per tutto uguale al povero disgraziato che abbiamo ripescato dal fiume che scendeva da una carrozza pubblica. Barcollava tanto che si doveva reggere alla porta della carrozza per non cadere in terra. Il vetturino aspettava i suoi soldi e allora il tipo gli dice (aveva una gran voce da ubriaco, signore): ‘Aspetta un momento ché vado in casa a prenderli’. Allora il vetturino dice: ‘Ti pare che sono nato ieri? Tu ora ti ficchi in casa senza pagarmi un penny’. ‘Ma come ti permetti’ dice il cliente, ‘tu non sai chi sono io’ e per farla breve stavano per venire alle mani, perché il cliente si era tutto scaldato e cominciava a dire che era stato insultato e il vetturino se lo poteva scordare che lo pagava, adesso. Allora stavo per intervenire, signore, ma poi da dentro casa esce un uomo di stazza grossa, un tipo sanguigno con la faccia rossa paonazza. Paga il vetturino, piglia l’ubriaco sottobraccio e se lo trascina in casa. A questo punto il vetturino se n’è andato per la sua strada, e pure io.”

“Lei è assolutamente certo che si trattasse dello stesso uomo che è stato ripescato oggi dal fiume, agente Jarvis?” gli domandò Holmes.

“Sono sicuro, signore, sì” rispose quello.

“Che mi sa dire dell’altro uomo, quello che ha pagato il vetturino?”

“Non aveva niente di particolare, signore. Era largo come una quercia, un tipo minaccioso, ma di aspetto comune.”

Alla menzione della via avevo avuto un soprassalto: in Southampton Row si affacciava infatti la casa di Isa Whitney, e lo dissi a Holmes, che si limitò ad assorbire l’informazione e annuire gravemente.

“Watson, saresti così gentile da appuntarmi l’indirizzo dei Whitney su un pezzo di carta? Ti ringrazio.” Lo consegnò a Hopkins e gli disse qualcosa cui non prestai attenzione, distratto da un improvviso bisogno di trarre una boccata d’aria alla finestra. La memoria sensoriale del lezzo di cadavere mi era risalita improvvisamente alle narici, procurandomi una leggera nausea.

“La moglie ti ha mentito” osservò Holmes, mentre salivamo sulla terza carrozza della giornata.

“Forse non era in casa.”

“A notte fonda?”

“Forse dormiva e non si è accorta di nulla.”

“Improbabile.”

Mi massaggiai le palpebre con le dita. “Che cosa vuoi fare?” gli chiesi. Mi sentivo stanco e abbattuto. Questa storia sembrava peggiorare di momento in momento.

Holmes mi guardò per un lungo istante prima di rispondere. “Avevo in mente di procedere subito a interrogare Mrs. Whitney, ma ho cambiato idea. Faremo colazione prima, dato che ti ho privato del tuo pasto mattutino - e per inciso non ho mangiato nulla neanche io.”

“Se preferisci procedere, Holmes, andiamo. Gli eventi della mattinata non mi hanno stimolato l’appetito.”

“Hai bisogno di mangiare” disse Holmes, in tono definitivo. “Il caso può attendere un’ora.”

Fui colpito dalla sua premura, rude ma evidente, proprio quando meno la meritavo. Allungai una mano a prendere la sua, per un istante, in un gesto familiare. Holmes non si ritrasse, ma contemplò il gesto come se gli fosse del tutto alieno.

“Sono desolato per ciò che è accaduto ieri” dissi piano. “Non meriti il modo abominevole in cui ti ho trattato. Vorrei esprimerti la profondità della mia ammirazione e della mia amicizia, ma ultimamente sembra che mi riesca solo di offenderti, in un modo o nell’altro. Mi dispiace, Holmes. Giuro che offenderti è l’ultima cosa che vorrei.”

Holmes dischiuse lentamente le labbra, come considerando una risposta. “Non c’è stata alcuna offesa” disse infine, ma la cordialità delle sue parole non si estese al tono di voce, né all’espressione del volto. “Tante cose che non mi erano chiare ieri lo sono oggi, ad ogni modo.”

“Di cosa parli?” gli domandai, confuso.

“Nulla d’importante.” Ordinò al vetturino di fermare la carrozza. “Andiamo. Conto di avere questo caso risolto prima di cena.”

Kate Whitney era una donna esile e minuta, dotata di una specie di riposta, quieta bellezza che non si manifestava al primo sguardo, ma si insinuava nell’osservatore dopo qualche tempo. Aveva l’aria sciupata di una persona invecchiata troppo in fretta, e difatti dimostrava almeno dieci anni di più dei suoi effettivi ventiquattro; una parte doveva averla avuta la tremenda condotta del marito, le cui lunghe sparizioni e pressoché totale incapacità di gestire il patrimonio familiare (molto ingente al tempo delle nozze, ma non più così) avrebbero sfiancato donne dalla fibra ben più robusta. Quando aprì la porta, aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto. Sapevo da mia moglie che da quando Isa Whitney era scomparso, la moglie lo piangeva notte e giorno. Ma, a ripensare ai nostri incontri, in due anni dubito di averla mai vista in uno stato che non fosse della più completa e abietta infelicità.

“Oh, dottore” disse la poveretta, scorgendomi sulla soglia. “Ha qualche notizia? Mi può dire qualcosa? Entri, la prego. Ho fatto un tremendo incubo stanotte…!”

“Mrs. Whitney” iniziai, togliendomi il cappello. “Sono venuto con il mio caro amico Sherlock Holmes, che ha accettato di occuparsi del caso…”

“Nel mio sogno, Isa era a terra, in una pozza di sangue. C’era sangue tutto intorno alla testa. È stato… è stato…”

“Mrs. Whitney, si calmi, la prego.”

“… così vivido…”

Gettai uno sguardo a Holmes, che non ebbe reazioni. “La prego, si sieda” le dissi più gentilmente che potei. La accompagnai per mano fino in salotto, e la feci accomodare sulla poltrona.

“L’avete trovato?” mormorò Kate Whitney, gli occhi sgranati. “Com’è morto? Oh, è inutile che cerchi di negare, dottore, ormai lo so… lo so che è troppo tardi. Mi dica solo com’è successo. La prego. Non ho il diritto di saperlo?”

“Naturalmente” dissi piano. “Mrs. Whitney, purtroppo…”

“Purtroppo!” ripeté la sventurata, senza fiato. Divenne, se possibile, ancora più pallida. “Lo sapevo! Oh, Isa, il mio povero Isa…” Si portò le mani al volto, lo seppellì nel fazzoletto e iniziò a singhiozzare disperatamente.

Nel corso della mia carriera medica, ho consolato innumerevoli vedove. La morte per malattia è uno degli orrori che la mente umana sommamente rifugge; è casuale, spietata, e nella maggioranza dei casi lenta e più dolorosa del necessario, se mai il necessario può essere quantificato. Tuttavia, la morte violenta è solo un gradino meno inconcepibile. L’arbitrarietà della mano umana che ruba la vita con una pistola o un coltello sembra trovare il suo specchio nell’uguale arbitrarietà della mano divina che la toglie con la malattia.

“Sono desolato, Mrs. Whitney” mormorai. “È stato un tragico incidente.” Guardai Holmes, che sembrava aver dedicato tutta la sua attenzione a un mobiletto d’antiquariato in un angolo della stanza. Lo vidi passare più volte il pollice sullo spigolo.

“Com’è successo?” mormorò Kate Whitney, con la voce rotta dai singhiozzi.

“Non lo sappiamo ancora” risposi.

“Mrs. Whitney” esordì Holmes, rialzandosi dal pavimento sul quale si era inginocchiato per motivi noti a lui solo, “posso domandarle da quanto tempo possiede questo mobile? Una stima generica è sufficiente.”

“C-cosa?” sussurrò la donna. “Il mobile?” Mi guardò come se non comprendesse la domanda.

“Sì, il mobile” ripeté Holmes, impaziente. “Da quanto tempo è in questa casa? Un anno? Dieci? Un giorno?”

“Ma… ma non saprei, adesso… così, su due piedi… Era già nella casa quando Isa e io… Oh, non lo so proprio, Mr. Holmes. Cinque anni, forse.”

“E mi dica,” proseguì Holmes, avvicinandosi, “Mrs. Whitney. Quando ha visto suo marito per l’ultima volta?”

Kate Whitney tirò forte col naso e raddrizzò coraggiosamente le spalle, prendendo un’aria di esausta dignità. “La sera del ventitré. Isa è uscito per il suo solito motivo, e non è più…” Emise un lungo gemito nel fazzoletto, raggomitolandosi di nuovo su se stessa. Le appoggiai una mano sul braccio, delicatamente. Avrei potuto - forse, dovuto - offrirle le solite parole di conforto che la situazione richiede, ma mi aveva colto un pensiero tremendo. Se mia moglie, o peggio, Holmes, mi fossero stati strappati in maniera altrettanto crudele…

“Mrs. Whitney” ribatté Holmes, con una sconcertante freddezza, “si dia un contegno, se non le dispiace.”

“Holmes, che modi…!”

“Mi dica un’altra cosa” continuò Holmes, ignorando la mia indignazione. “Chi è l’uomo che la visita costantemente dalla scomparsa di suo marito?”

Kate Whitney lo guardò confusa. “Lei come fa a sapere di Charles?” mormorò.

“È Charles il nome dell’uomo che imprime orme di stivale nel suo salotto e sulle sue scale, che lascia capelli corti e neri sulle sue poltrone”, ne sollevò uno dallo schienale della poltrona sulla quale lei sedeva, solo per gettarlo via un secondo dopo, “e cenere di tabacco Virginia nei suoi posacenere? Grazie a Dio non ho necessità di ispezionare la sua camera da letto” aggiunse, in un sibilo.

“Holmes, per l’amor del cielo” esclamai. “Torna in te. Ti sembra il modo di trattare una signora?”

Holmes alzò i suoi occhi su di me, riservandomi uno sguardo gelido. “‘Signora’ potrebbe rivelarsi un termine indebitamente generoso, alla luce dei fatti.”

“Che sta succedendo qui?”

A pronunciare la frase era stato un uomo apparso sulla soglia della porta. Era di costituzione eccezionalmente alta e larga, con un torace ampio da rugbista e grossi bicipiti allenati che culminavano in mani tozze e pelose. Il volto era quello d’un trentenne, ma, come Kate Whitney, pareva invecchiato anzitempo nelle rughe intorno agli occhi e nei solchi profondi scavati sulla fronte da una certa, evidente attitudine alla collera.

“Ah” disse Holmes, corrugando la fronte per un brevissimo istante, poi distendendola. “Le mie scuse più sentite, Mrs. Whitney. Non mi capita spesso di sbagliarmi, ma evidentemente quest’oggi non sono del tutto in me.” Si rivolse poi all’uomo. “Il mio nome è Sherlock Holmes, signore, e mi è stato chiesto di indagare sulla morte di suo cognato. Questi qui presente è il mio amico e collega il dottor Watson, nonché medico curante del fu Isa Whitney, del quale abbiamo recato a sua sorella la triste notizia della dipartita.” Fece una pausa. “Non sarebbe potuto giungere in un momento più appropriato, Mr.…”

“Bowles” rispose l’uomo, bruscamente. Raggiunse la sorella alla poltrona, e appoggiò la mano sullo schienale con gravità, un gesto deciso e protettivo. “Non ricordo di aver chiesto al galoppino di Scotland Yard di indagare su alcunché. C’è la polizia per questo lavoro.”

“Sono stata io, Charles” disse la donna, con voce tremula. “Non sapevo cosa fare. Ero così spaventata, e il dottore ci ha aiutato altre volte, Isa e me, e così ho pensato…”

“Hai pensato male” ribatté Charles Bowles. “Tutto quel che n’è venuto fuori è che un impiccione di più ha ficcato il naso nelle vergogne di questa famiglia. Ti avevo detto di startene tranquilla, Kate.”

“Tranquilla? Tranquilla? Come avrei mai potuto starmene tranquilla, con Isa là fuori, magari tirato sotto da un carro, o agonizzante, o prigioniero dei criminali di quell’orribile posto, o annegato nel fiume!”

Holmes batté il bastone da passeggio sul tappeto con un moto d’impazienza. “A differenza di sua sorella, la cui resa è molto sentita e partecipe, lei non sembra colpito dalla notizia, Mr. Bowles.”

“Quale notizia?” ribatté l’uomo, con alterigia. “I drogati e i pocodibuono come mio cognato fanno tutti una sola fine. È un sollievo sapere che finalmente ce ne siamo liberati.”

“Charles!” gemette Kate Whitney. “Come puoi dire una cosa così orribile?”

“È la verità, Kate” ribatté egli. “Lo sai anche tu.” Poi si volse bruscamente verso Holmes e me. “Signori, vi siete scomodati a venire a riferirci la vostra notizia; la polizia senza dubbio si sarebbe sentita in dovere di farlo ugualmente. Adesso debbo chiedervi di andarvene.”

“Solo un momento” ribatté Holmes. In quel momento il campanello suonò una volta, imperiosamente. Charles Bowles corrugò la fronte, lanciando uno sguardo in direzione della porta. “Solo una domanda, Mr. Bowles” continuò Holmes, come se nulla fosse stato. “È stata sua sorella ad aiutarla a trasportare il corpo, o ha comprato la discrezione di un membro della servitù?”

“Signora, due… gentiluomini per lei” annunciò la cameriera, affacciandosi sulla soglia, subito seguita da due nostre conoscenze. Hopkins e l’agente Jarvis si toccarono rispettivamente la tesa del cappello e il bordo dell’elmetto.

“Agente?” domandò Holmes, accennando a Bowles.

“Sì, signore. È lui, signore.”

“Ne è assolutamente certo?”

“Sì, signore.”

Charles Bowles era livido, come sul punto di perdere i sensi, ma l’ingresso dei poliziotti parve avere su di lui l’effetto opposto: si colorì tutto in viso e divenne improvvisamente paonazzo. “Come si permette di fare irruzione in questa maniera in casa mia e rovesciarmi addosso le sue assurde accuse?” esclamò alla volta del mio amico, che da parte sua lo guardò senza esitazioni.

“Ispettore Hopkins, vorrei che fissasse la sua attenzione sul mobiletto alla sua sinistra. Lo spigolo frontale, in particolar modo. Mi dica se nota qualcosa.”

Hopkins obbedì. “Qui è scheggiato” osservò, passandovi sopra il dito. “Sembra che un frammento di legno sia saltato via.”

“Precisamente” disse Holmes. “Ed ora, se non le dispiace, lo sposti e osservi il pavimento.”

La manovra non richiese che un istante, dopodiché Hopkins si inginocchiò sul pavimento. “Sangue!” esclamò, alzando il volto nella nostra direzione.

“Non sarà difficile dimostrare che quel sangue è vecchio di una decina di giorni, e pertanto è stato versato intorno alla sera nella quale Isa Whitney è stato visto fare ritorno a casa. Per quanto riguarda l’attendibilità delle deposizioni lasciate da Mrs. Whitney e Mr. Bowles a Scotland Yard, credo…” Holmes volse lo sguardo per la stanza mentre parlava, ma tacque quando questo si posò su Kate Whitney. Si era alzata in piedi, pallida come una morta, gli occhi rossi sgranati e fissi sul fratello. Dischiuse le labbra per parlare, ma poi le forze parvero mancarle del tutto e la donna si accasciò d’un colpo sulla poltrona.

“Kate!” gridò Charles Bowles, inginocchiandosi accanto alla sorella.

Le presi il polso, che era debole, ma non così tanto da farmi temere per la sua vita. Le sfilai il foulard e sbottonai il severo colletto dell’abito perché potesse respirare meglio. Così facendo notai i segni di vecchie cicatrici - graffi, perlopiù, qualche livido, ma anche una piccola bruciatura rotonda del diametro di una sigaretta - intorno al collo e ai polsi. “Porta dei sali” ordinai alla cameriera, cercando di dissimulare ogni emozione dalla mia voce. “Ha mangiato in questi giorni?” domandai poi a Bowles.

“Poco” rispose lui, la fronte segnata da spesse rughe di apprensione. “Isa, lei non… non ne sapeva niente” aggiunse, poco più di un mormorio, coprendosi gli occhi con una mano. “Si stava consumando di preoccupazione per lui.”

Tornò la cameriera coi sali, che avvicinai al viso della povera Kate Whitney. I capelli vicino alle tempie avevano iniziato a ingrigire, come il resto della sua giovinezza. Provai una pena estrema per lei, unita a rabbia. “Come ha potuto tenerle nascosto di aver ucciso suo marito?” scattai, incapace di controllarmi oltre. “Suo cognato!”

“Non ho fatto nulla del genere” ribatté Bowles. Prese la mano di Mrs. Whitney, le cui palpebre avevano cominciato a tremare mentre lentamente riprendeva conoscenza. “Pensate di me quello che volete, ma non sono un assassino!”

“Questo è precisamente quello che dovrà dimostrare” disse Hopkins alle sue spalle.

Non appena riprese i sensi, Kate Whitney si aggrappò alle spalle del fratello come per cercarvi un sostegno. Egli la abbracciò prontamente, ma lei si tirò subito indietro con un urlo soffocato, come se il ricordo di ciò che aveva udito le fosse sovvenuto solo in quel momento.

“Non è come credi. Kate, non è come credi, te lo giuro” disse Bowles, rapidamente.

“E com’è, allora?” sussurrò lei, gli occhi pieni di lacrime. “Che cosa hai fatto, Charles?”

Bowles distolse lo sguardo. “Isa è tornato la notte del venticinque. È sceso dalla carrozza e ha cominciato a litigare col vetturino perché non voleva pagarlo. Era completamente inebriato, uno spettacolo vergognoso. Ho pagato io per lui e l’ho portato in casa. Non volevo che lo vedessi in quelle condizioni; volevo portarlo nella stanza degli ospiti e lasciarlo dormire lì. Ma Isa era completamente fuori di sé, e ha detto delle cose… che non avrebbe mai dovuto dire, o pensare. O fare.” Guardò intensamente la sorella per un lungo istante, e la silenziosa comunicazione tra di loro parve esaurire l’argomento, perché Kate Whitney si strinse il colletto dell’abito intorno alla gola e rabbrividì, ma non furono spese altre parole. “Abbiamo iniziato a litigare” continuò Bowles, “e abbiamo alzato la voce. Siamo venuti alle mani. Isa mi è saltato addosso, e sono finito contro quel mobile. Poi non so cosa sia successo, sono svenuto e quando mi sono risvegliato c’era sangue sul pavimento. Il mio. Isa non era da nessuna parte.”

“E i domestici, a due porte di distanza, non hanno udito nulla?” domandò Holmes.

“Era la loro serata di riposo.”

“E Mrs. Whitney?”

Bowles sospirò, ancora senza alzare lo sguardo. “Da quando quello sciagurato è scomparso, Kate prende il laudano per dormire.”

“E lei vorrebbe farci credere” iniziò Hopkins, “che un uomo completamente inebriato, addirittura incapace di reggersi in piedi, è riuscito a mettere al tappeto con tanta facilità uno della sua stazza?”

“È quello che è successo” rispose Bowles, e mi sembrò vergognarsi egli stesso di aver confessato una cosa del genere, perché si colorì bruscamente in viso. “Qui” disse, scostando i capelli da un punto poco dietro l’orecchio sinistro, “è dove ho sbattuto.”

Studiai per un attimo la ferita - nulla di serio, ormai quasi cicatrice - e diedi la mia conferma a Holmes con un cenno.

Un gemito soffocato dalle nostre spalle ci ricordò che Mrs. Whitney era ancora nella stanza. La povera donna continuava a passare da un dolore all’altro, da una tremenda notizia all’altra, e non si poteva dire quale fosse peggiore.

Alla fine Hopkins e l’agente Jarvis arrestarono Charles Bowles con l’accusa di omicidio e lo portarono via. Holmes ed io restammo nel salotto; il mio amico aveva l’aria più pensierosa che mai. Io avrei voluto lasciare la casa ed essere graziato dell’incombenza di guardare nuovamente Kate Whitney negli occhi, ma mi aveva assalito un terribile dubbio, al quale la coscienza imponeva di trovare soluzione al più presto.

“Mrs. Whitney” la chiamai piano, sedendo accanto a lei. “Sono desolato, ma devo farle una domanda, e ho bisogno che lei mi risponda sinceramente. Può farlo?”

Lei mi guardò dapprima come se non capisse, poi lentamente annuì.

“Chi le fatto del male, Mrs. Whitney?”

“Nessuno” rispose lei, irrigidendosi.

“Mrs. Whitney. Kate. Ha la mia parola d’onore” alzai lo sguardo, “e quella di Mr. Holmes che la cosa non uscirà da questa stanza.”

Kate Whitney tacque.

“Chi le ha fatto una cosa del genere merita di essere punito, Mrs. Whitney” le ricordai dolcemente.

“Non voleva” mormorò lei alla fine, tenendo gli occhi fissi sul pavimento. “Lui non voleva. Era… l’oppio. Era quella droga infernale a trasformarlo. Lo rendeva un altro. Non era lui, lui non avrebbe mai… mai…”

Le strinsi la mano. Lo sguardo di Holmes su di me mi parve stranamente comprensivo.

“Supponiamo” mi disse qualche minuto dopo, uscendo in strada, “che la storia di Charles Bowles sia vera.”

“Holmes, anch’io vorrei con tutto il cuore che a questa famiglia disgraziata fosse risparmiata la tragedia di un’impiccagione” risposi, “ma non so se…”

“I desideri del cuore non hanno niente a che fare con quello che sto dicendo” ribatté lui, brusco. “Io parlo di fatti.”

“Molto bene, allora. Fatti. Di che fatti stiamo parlando?”

“Il sangue, per dirne una. Tu stesso hai affermato che Whitney ha sanguinato a lungo, prima che il suo corpo venisse rimosso da dove si trovava. Presumo che tu non abbia mai versato del sangue sul parquet e provato a rimuoverlo dopo che si era già asciugato.”

“No” risposi, lentamente. “Non ho mai avuto questo piacere.”

“Non si cancella. Lascia un alone che, per quanto leggero, è pressoché indelebile. In casa Whitney non vi era nulla del genere: il sangue che ho trovato era sotto il mobile, dove non avevano pensato di pulire, ma il parquet scoperto non aveva aloni di sorta.”

“Va bene” ammisi. “Cos’altro?”

“È tutto, per il momento. Ora, supponiamo che Charles Bowles non abbia mentito.”

“Credevo che il tuo metodo vietasse di fare ipotesi in mancanza di dati.”

Ebbi l’impressione che Holmes mi ascoltasse solo parzialmente. Aveva preso a camminare avanti e indietro sul marciapiede, riflettendo ad alta voce. “Non interrompermi per un minuto, ti dispiace, Watson? Immaginiamo che, una volta che Whitney sia entrato in casa, le cose si siano svolte come ce le ha presentate il cognato. Hanno un alterco, che termina con Bowles sopraffatto. Bowles resta svenuto per qualche tempo, ma non troppo a lungo, e quando si sveglia Whitney non è da nessuna parte. Ripulisce il sangue in fretta perché la sorella non lo veda la mattina seguente. Dove può essere andato Whitney?”

“Da qualunque parte” risposi, vagamente esasperato. “Se era sotto l’effetto di…”

“No. L’effetto andava ormai svanendo, prova ne è che Whitney è riuscito a sopraffare il cognato. Ammettiamo che sia nuovamente uscito. Senza denaro e nel pessimo stato che possiamo immaginare, anche se un ladro avesse voluto aggredirlo, perché prendersi la briga di ucciderlo? Con un colpo alla testa, ricordiamolo. Per poi tornare a recuperare il cadavere, riempirgli le tasche di sassi e gettarlo nel fiume. Watson, ammetterai che questo scenario non ha alcun senso.”

“Forse è tornato alla fumeria” tentai, “per un’altra dose di oppio.”

“Mi sembra di ricordare di averti sentito dire, qualche tempo fa, che Isa Whitney aveva la malsana tendenza degli oppiomani a pentirsi ferocemente di aver fatto ricorso alla sostanza non appena gli effetti svanivano.”

“È una tendenza di tutti coloro che fanno uso di questo genere di droghe” confermai, asciutto. “Ma non una regola.”

“Bene, non importa. Per il momento ce la faremo bastare” disse Holmes, “come ipotesi di lavoro.”

Girò sui tacchi con uno scatto e suonò con decisione il campanello di casa Whitney, da cui eravamo appena usciti.

“Holmes, che stai facendo?”

“Verifico la nostra ipotesi di lavoro” mi rispose, prima di insinuarsi tra lo stipite e la cameriera accorsa ad aprire la porta e farsi strada da solo nell’ingresso. Holmes studiò per un secondo la superficie degli scalini di legno che conducevano al primo piano, poi si alzò risolutamente e scattò di sopra. Lo seguii con qualche esitazione, tentando senza frutto di divinare i suoi pensieri.

Nel corridoio al primo piano, Holmes aprì un paio di porte prima di trovare la stanza che cercava, che scoprii con un vago imbarazzo essere la camera da letto dei Whitney.

“Holmes” dissi lentamente. “Non puoi davvero cercare le prove dell’assassinio di Whitney in questa camera.”

“Sì” mormorò Holmes, che teneva tra le mani un largo portagioie rettangolare e lo soppesava con aria pensosa da qualche momento. Lo voltò sottosopra, mostrandomi lo spigolo sporco di uno sbiadito rosso rame. Poi, mentre ancora faticavo ad accettare le implicazioni di ciò che mi aveva appena indicato, Holmes tirò via lo scendiletto dal lato della finestra e rivelò una larga macchia a forma di semicerchio impressa nel parquet.

“Qui terminava il tappeto” spiegò, indicando la linea retta da una parte. “Come puoi notare, questo scendiletto perfettamente pulito non è uguale al suo gemello.”

Fu pressappoco in quel momento che giunse Mrs. Whitney, seguita a qualche passo di distanza dalla cameriera. Quando scorse la macchia sul pavimento, ben visibile nonostante qualcuno avesse tentato di lavarla via, Mrs. Whitney si fece di un colorito assolutamente malsano, e per un secondo temetti che sarebbe svenuta ancora.

“Mi permetta” disse Holmes, facendosi avanti per sorreggerla, ma quello che realmente fece fu sbottonarle il colletto dell’abito e scostarne da parte un lembo, denudando il collo martoriato.

“Mr. Holmes!” gemette la donna, intrappolata nella presa ferrea del mio amico, ma al tempo stesso dando l’impressione che bastasse la stretta di un bambino per tenerla ferma.

“Non sono un medico, ma questa bruciatura mi pare più vecchia di una settimana, Watson. Naturalmente mi rimetto al tuo giudizio superiore.”

Annuii con riluttanza. Holmes lasciò Mrs. Whitney, la quale andò con lo sguardo dal mio amico a me, senza capacitarsi di cosa stesse accadendo.

La cameriera entrò in quell’istante e lanciò un urletto soffocato, chiaramente sconvolta alla vista di Holmes con le mani addosso alla sua padrona. “Clarice. Esci” le dissi, cercando di utilizzare la mia espressione più rassicurante e il mio tono più pacato. La ragazza mi conosceva da tempo; sapeva di potersi fidare di me. “Mrs. Whitney non corre alcun pericolo, puoi stare tranquilla.”

La ragazza tentennò, ma se vi è un dono che una lunga pratica medica lascia in un uomo è la capacità di trovare la voce e la faccia più adeguate per calmare le ansie altrui. Quando la ragazza se ne fu andata, Holmes mi ringraziò brevemente con lo sguardo.

“Quella notte, Mrs. Whitney, suo marito è entrato in camera da letto e le ha fatto del male” disse alla donna. Parlava con una strana lentezza, come se le parole rifiutassero di uscire dalla sua bocca. “E lei l’ha colpito col suo portagioie.”

“Lei è pazzo” ribatté la donna, riuscendo a suonare insieme completamente terrorizzata e appassionata e convinta come la persona più innocente del mondo. “Io non vedo mio marito da… da quando… Il dottore lo sa. Gliel’ho detto.”

“La bruciatura, Mrs. Whitney” le rammentai nel tono più gentile che mi riuscì. “E questi lividi.”

“Lui non voleva” mormorò Kate Whitney, scuotendo la testa. “Isa non avrebbe mai… Dottore, lei lo sa. Isa era un uomo buono. Era l’oppio a farglielo fare. Lei lo conosce” disse, aggrappandosi alle falde del mio cappotto. “Lei sa com’è fatto. Isa non è violento. È l’oppio a cambiarlo. È il maledetto oppio.”

“Lo so, Mrs. Whitney” risposi. C’era una luce di completa follia nei suoi occhi, che mi inquietò e mi riempì di pena. “È stato senza dubbio un incidente.”

“Volevo solo che si mettesse a dormire” bisbigliò Kate Whitney. Le mani persero forza intorno alle mie braccia; la bocca della donna si appoggiò sul bavero del mio cappotto, la voce soffocata nella stoffa, gli occhi sgranati e distanti. “Dottore, ho fatto uno strano sogno questa notte. Lo faccio tutte le notti, ormai. C’è Isa a terra, con un cerchio di sangue intorno alla testa, e sembra sempre così… così…”

“Mi dispiace” mormorai, sentendola farsi sempre più pesante tra le mie braccia, e cercando di sorreggerla, “che abbia dovuto sopportare tutto questo.”

“… così. Vivido.”

Parte 3

fic, pairing: holmes/watson, language: italian, fic: sherlock holmes

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