Fandom: Supernatural.
Pairing/Personaggi: Castiel/Dean, Balthazar, Bobby, Original Character, Sam.
Rating: NC17.
Charapter: 4/10.
Beta:
koorime_yu (la martire ♥).
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico.
Warning: Angst, Fluff, EGGPREG (o Egg-Fic, come preferite), Sesso descrittivo, Slash, What if.
Words: 4670/41160(
fiumidiparole).
Summary: Madre Natura - o Dio, visto il contesto - vuole che più sia grande una creatura, più tempo sia necessario per la gestazione; come le elefantesse, che restano gravide per due anni. E se la creatura in questione è grande “approssimativamente quanto il Crysler Building”, quanto potrebbe volerci? Diciamo… quattro anni? Più o meno il tempo che passa da quando Dean viene “salvato dalla perdizione” al momento in cui recupera l’anima di Sam, sì.
Note: La storia nasce grazie e si ispira a questa dolcissima fan-art:
Vedere il mondo in un granello di sabbia di
ai_sellie. Il titolo della fic - adorabile e crack e… ho già detto adorabile? XD - è un suggerimento di
koorime_yu ♥
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There is an Egg between Us
Capitolo 4.
L’odore della tinta era così forte da soffocarlo, la presa di Castiel sul suo polso era una morsa d’acciaio. Le sue parole gli rimbombavano ancora in testa.
«Qualunque cosa ti riguardi, non è una cazzata».
Dean cercò di deglutire, ma aveva la bocca asciutta e la gola ostruita come se avesse ingoiato sassi, il cuore gli batteva così forte che l’infossatura tra le clavicole sobbalzava distintamente. Gli occhi dell’angelo erano implacabili, scuri come il crepuscolo, rannuvolati dall’ansia. Lo stomaco del cacciatore era un contorsionista che faceva le capriole su un filo. L’aria era tanto tesa che, se fosse caduta una piuma a terra, ne avrebbero sentito il rumore.
Poi Castiel si mosse, rapido ed inflessibile come una scudisciata: gli piantò una mano sul petto e lo spinse contro il muro ancora bagnato di vernice azzurra. Dean ebbe a malapena il tempo di assorbire il colpo alle scapole, che gli fece rimbalzare la testa contro la parete con un tonfo sordo, poi la sua bocca - socchiusa in un ansito stupito - fu piena della lingua di Cas. Insistente. Impietosa. Invasiva.
Cercare di scrollarsi di dosso il corpo dell’angelo era come tentare di spostare un camion con la sola forza delle braccia, aderiva al suo per tutta la lunghezza, lo pressava con tanta forza da schiacciargli i polmoni. Dean gli strattonò i capelli dietro la nuca, cercando ancora di staccarlo da sé, ma Castiel afferrò anche quel polso, sbattendoli entrambi al muro sopra le loro teste; il suono rimbombò come una frana, nella stanza vuota.
Le sue labbra vennero morse e tirate da denti duri e decisi, ma senza fare male, non davvero, con forza perfettamente calibrata. Lui non riusciva a pensare, non aveva modo di reagire, non riusciva a respirare, e alla fine la sua mente si arrese, abbandonando il panico, e le sue ginocchia si piegarono per mancanza d’aria, o forse per il sollievo. Non era colpa sua quello che stava succedendo, non aveva scelta, quindi andava bene che il cuore gli battesse in gola, che i suoi fianchi si stessero spingendo contro quelli di Castiel, che le loro dita si fossero intrecciate, che la sua bocca ricambiasse morso su morso, bacio su bacio.
Un trillo squillante squarciò l’aria e Dean spalancò gli occhi, in un sussulto. Sì voltò a guardare il cellulare posato sul tavolino accanto al divano, cercando di riprendere fiato, poi si tirò su e cercò di sedersi, sfregandosi le mani sulla faccia, accigliato. Che cazzo era successo?
Sul televisore scorrevano i titoli di coda di un qualche film che aveva iniziato a vedere perché sembrava promettente, ma poi si era rivelato di una noia mortale. Si era addormentato?
Il telefonino stava ancora squillando.
Lo raccolse e si schiarì la gola. «Pronto?» smozzicò con voce arida e ruvida.
«Dean… tutto okay?» lo raggiunse la voce si Sam.
«Sì,» gracchiò, poi tossì ancora «mi sono addormentato davanti alla TV».
Suo fratello ridacchiò. «Somigli sempre di più ad un vecchio pensionato».
«Vaffanculo» borbottò il maggiore, prendendo un sorso della birra abbandonata sul tavolino, nella speranza di riattivare le corde vocali.
«Volevo solo avvisarti che sto per imbarcarmi sull’aereo. Dovrebbe atterrare domani, a metà mattinata. Ho già affittato una macchina per arrivare da te, con lo stesso servizio a cui ci siamo rivolti l’altra volta».
«Okay, perfetto» garantì lui «Buon viaggio».
«Grazie. E buona notte. Mi dispiace di averti svegliato».
«No, è meglio così» esclamò Dean, con percettibile sollievo.
Se Sam recepì qualcosa di strano dal suo tono non ne fece parola, si limitò a salutarlo e chiudere la chiamata.
Lui si scoprì a massaggiarsi i polsi; aveva l’impressione di sentire ancora la presa di Castiel su di essi, e si passò le mani tra i capelli, sentendoli appiccicati dalla vernice, anche se sapeva che era impossibile. Cristo, di sicuro era stato un sogno realistico. Non gli capitava di farne di così vividi da quando gli angeli avevano perso l’abitudine del cazzo d’invadere pure il suo sonno.
Si bloccò nell’atto di allungare di nuovo una mano verso la birra. Possibile che… ? No, andiamo, figuriamoci se Cas avrebbe mai potuto fare una cosa simile! Al massimo Balthazar avrebbe potuto fargli uno scherzo così idiota, ma non gli sembrava possibile che riuscisse ad emulare il suo angelo sfigato tanto fedelmente. E Dio, che diavolo era quella sicurezza? Dov’era finito il verginello imbranato che era entrato con lui in uno squallido “luogo di perdizione”? Ma soprattutto perché? Perché cazzo il suo subconscio aveva prodotto quella… quella… cosa?
«Questa faccenda mi sta fottendo il cervello» concluse, seppellendo la faccia tra le mani.
*°*°*°*°*
Il suono del campanello ruppe l’aria con uno squillo acuto e Dean lasciò quello che stava facendo in cucina - riordinare la spesa - per raggiungere la porta. Accanto all’Impala, sul vialetto inghiaiato di recente, era parcheggiata un’anonima monovolume blu e, attraverso il vetro opaco della porta, distinse la familiare e gigantesca sagoma del suo fratellino.
«Alla buon ora!» lo accolse divertito, spalancando il battente.
Sam lo strinse subito in un breve abbraccio. «È bello rivederti» disse contro la sua spalla, poi lui lo scostò leggermente da sé per guardarlo meglio.
Aveva il tipico colorito abbronzato di chi era stato al sud per prendere il sole ed i suoi capelli erano leggermente più lunghi, un po’ schiariti dalla salsedine. Per il resto era sempre lo stesso ragazzone alto e muscolo, con un sorriso da Mentadent ed occhi verdi Made in Winchester.
«Ti trovo bene» ammise Dean, mentre l’altro prendeva la propria valigia e la portava dentro.
Sam, intanto, si stava guardando attorno con fare curioso. «Dall’esterno sembra ancora la catapecchia che ho lasciato due mesi fa, dentro però... Wow! Sembra che tu ti sia dato sul serio da fare» constatò.
«Te l’avevo detto, uomo di poca fede» sbuffò il maggiore, guidandolo in soggiorno. «Purtroppo non ho tanti letti a disposizione, amico. O dividi il matrimoniale con me, o prendi il divano. Ma ti assicuro che è nuovo e molto comodo» continuò, lasciandosi cadere su quest’ultimo.
«Il divano andrà benone. Non ci tengo a dormire con te, russi» sogghignò il suo fratellino, continuando ad occhieggiare l’ambiente, senza curarsi della sua espressione oltraggiata.
Dean doveva ammettere che i mobili non erano un granché, erano del genere economico e funzionale che si poteva trovare in qualunque ingrosso, molto anonimi, ma aveva cercato di dare personalità alla stanza appendendo alle pareti grandi stampe in bianco e nero di film classici. Gli scaffali sopra il televisore - schermo piatto, HD, 58 pollici - erano occupati da un impianto stereo nuovo di zecca e da pile di CD e DVD; l’unico vizio che si era concesso. Sul mobile basso sotto le finestre facevano bella mostra di sé un paio di cornici per foto, al momento ancora vuote, ed una vecchia scatola di biscotti in latta, che conteneva le pochissime foto di famiglia che erano rimaste loro. Non era ancora riuscito a convincersi ad aprirla e scegliere quali incorniciare.
Sam si abbandonò nel posto accanto a lui, lasciando cadere la testa sullo schienale, stanco dalle lunghe ore di viaggio in aereo o poi in macchina.
Dean gli batté una pacca su un ginocchio. «Ho preso due belle bistecche da cuocere alla brace, qui fuori. E, prima che tu lo chieda, sì, c’è anche un po’ di erba per la tua cucina salutista» lo informò.
«Verdure, Dean, si chiamano verdure» borbottò lui.
«Sì, sì, quella roba là. Allora, com’è andato il viaggio?»
Naturalmente si erano sentiti spesso al telefono, ma non era certo la stessa cosa. Stavolta Sam si dilungò a raccontargli tutti i dettagli, dal suo arrivo ad Atene fino alla partenza, e - anche se delle nozioni storiche che raccontava non poteva fregargliene meno - lui lo ascoltò con pazienza per il puro piacere di riaverlo lì con sé.
Naturalmente il suo fratellino idiota non era riuscito a rimanere inattivo a lungo, perché i guai seguono i Winchester come le mosche il miele, e Dean non poteva biasimarlo più di tanto, perché nemmeno lui era riuscito a staccarsi del tutto da quella vita; era impossibile, con l’esperienza che aveva alle spalle, non notare le notizie bizzarre riportate sui giornali, e aveva cercato di limitarsi a passare le tracce a Bobby, che a sua volta indirizzava verso di esse altri cacciatori, ma non sempre era facile trattenersi dall’agire. Allo stesso modo, la seconda settimana di vacanza Sam aveva notato una serie di strani fatti, che l’avevo portato ad una faida tra vecchi dei.
«Alcuni di loro sono riusciti a riadattarsi - Ermes gestisce una azienda import-export, Afrodite fa la modella, Eros è un consulente di coppia, e così via -, ma non tutti, specie gli dei maggiori. Senza essere adorati non riescono a sopravvivere, lo sai, quindi i più sfortunati si sono lasciati dietro una scia di sangue che agli altri non piace affatto. Chi è riuscito a sistemarsi non vuole uscire allo scoperto».
«Quindi ti sei sul serio rotolato sui prati con la biondona» esclamò Dean «O tra gli uliveti. O quello che c’è lì, insomma».
Sam corrucciò la fronte, confuso. «La biondona? Intendi Afrodite? Non è affatto bionda, sai».
Il maggiore inarcò le sopraciglia. «A no? E com’è?» chiese in tono malizioso.
Suo fratello borbottò qualcosa che poteva suonare come «Una bellezza antica» mentre arrossiva e distoglieva lo sguardo. «E tu, come va con Cas?» domandò, con l’evidente intento di cambiare discorso.
Dean quasi si soffocò con la sua stessa saliva. «Parliamo di sesso e tu mi chiedi di Cas?»
«Oh, be’, visto che sei tanto interessato alla mia vita sessuale, mi sembra il minimo informarmi sulla pagnotta che hai messo in forno» osservò l’altro, con finta innocenza.
«Puttana» borbottò lui.
«Fesso» restituì il minore, dandogli una spintarella sulla spalla. «Allora?»
«Allora cosa?» squittì il fratello «È impegnato. Si fa vedere ogni tanto, ma viene a trovarmi più spesso Balthazar di lui. Sembra che lo spaventapasseri abbia preso molto sul serio il suo dovere di ginecologo divino, o quello che è».
«Uhm… quindi non avete ancora parlato?»
«Di cosa?»
«Di voi, di quello che è successo all’Inferno, di quello che lui sta combinando in Paradiso, di cosa voglia fare dopo, di come sarà questo bambino…» elencò Sam, con l’aria di poter continuare per un’altra ora «Sono certo di non essermele fatte solo io queste domande».
Dean annuì in conferma. «Abbiamo parlato. Un po’» ammise con riluttanza «Mi ha detto che secondo lui non riesco a ricordare di quando mi ha salvato perché il cervello umano non è in grado di reggere la sua gloria e magnificenza, o qualcosa del genere».
«Ma tu gli credi. Ti sei convinto che abbia ragione, che sia successo quella volta, con te?» osservò suo fratello.
Lui si limitò ad annuire. «Cas non mi mentirebbe mai e non camperebbe teorie in aria, specie su un argomento del genere, se non le credesse davvero valide».
Sam si agitò sul posto. «Non dico che menta, però potrebbe sbagliarsi, no?»
Dean scrollò le spalle. «Non so quanta importanza abbia, alla fine dei conti. Crescerò il pulcino comunque, quella è più… una questione tra noi, sai».
Il minore annuì, anche se non sembrava molto convinto. «Pulcino?» chiese invece, con una nota apertamente divertita nella voce.
«È un uovo» replicò l’altro, come se fosse del tutto logico.
«A proposito, dov’è?»
Dean tirò fuori il cosino piumoso da una tasca della felpa che indossava e glielo mise tra le mani.
«Wow…» fece il suo fratellino «È diventato bello grosso» osservò, soppesandolo.
«Davvero?» fece l’altro, sinceramente perplesso. In effetti aveva notato che non riusciva più ad infilarlo nel taschino, ma pensava solo che le ultime camicie comprate avessero le cuciture più strette.
«Aveva le dimensioni di un uovo di gallina, non ricordi? Ora… è quasi il triplo» disse Sam in tono assorto. Aveva un’espressione strana, leggermente accigliata, forse un po’ spaventata, e lo teneva discosto da sé come se temesse che potesse esplodere da un momento all’altro. «Sta davvero crescendo» ammise, infine.
«Tutto okay?» domandò Dean, preoccupato.
«Sì, io…» suo fratello si schiarì la voce «Credo che una parte di me non avesse creduto vera questa storia, fino ad ora» confesso quindi, imbarazzato.
Il maggiore annuì, comprensivo. «Continua a sembrare assurda anche a me».
*°*°*°*°*
Dean stese un plaid addosso al suo enorme fratellino e chiuse silenziosamente gli scuri delle finestre, prima di uscire dal soggiorno in punta di piedi. Dopo il pranzo faraonico in cortile, erano tornati dentro per vedere un film e Sam si era addormentato come un sasso, stanchissimo.
Percorse il corridoio in direzione delle scale, intenzionato a mettersi a lavoro per tenere le mani occupate, quando un noto frullio d’ali gli fece alzare la testa.
Castiel era sul pianerottolo, in cima alle scale.
Dean si fermò sull’ultimo gradino, quello più in alto, guardandolo da sotto in su, e quando l’angelo fece per aprire bocca, gli premette una mano sulle labbra. «Shhh. Sammy si è appena addormentato» spiegò sottovoce.
«Sam è qui?» riuscì a dire Cas contro il suo palmo e lui percepì la carezza delle sue labbra sulle pieghe della mano; erano morbide e leggermente screpolate.
Gli sfuggì un sorriso e si affrettò a ritirarla, scuotendola come se fosse formicolata. «Solletico» borbottò a mo’ di scusa. «Sì, il suo visto è scaduto, quindi ha deciso di tornare per un po’ a casa, prima di ripartire» rispose infine.
L’angelo si limitò ad annuire, ancora fermo dov’era, abbastanza vicino da impedire a Dean qualunque movimento, a meno che non volesse scendere di uno scalino, e intanto frugò la sua figura con lo sguardo, nell’intento evidente di capire dove fosse l’ovetto. Poi, a colpo sicuro e senza aspettare che fosse lui a darglielo, infilò una mano nella tasca della sua felpa e se lo prese.
«Ehi, bastava chiedere» sbuffò il ragazzo e l’altro gli rivolse un accenno di sorriso.
Dean distolse lo sguardo, imbarazzato. Era la prima volta che si vedevano dopo che lui aveva fatto quel bizzarro sogno. Aveva cercato di pensarci il meno possibile e, alla fine, aveva deciso che era solo un prodotto confuso del suo subconscio impazzito, che doveva aver unito le sue necessità fisiche alla sua frustrazione per non riuscire a ricordare il momento in cui era stato “salvato dalla perdizione” e, probabilmente, le aveva sommate al suo ultimo incontro con Cas. Niente di strano, no?
Si schiarì la voce, nervoso. «Pensi di farmi passare?» borbottò poi, e solo allora l’angelo indietreggiò, cedendogli il passo, ma costringendolo comunque a passare vicinissimo a lui, tanto che i loro abiti strusciarono.
Il cacciatore sospirò, un tantino esasperato da quelle continue invasioni del suo spazio personale, ma anche arreso all’evidenza che l’amico non fosse in grado di rispettarlo. E, in fondo, gli andava bene così; era stato lui a chiedergli di non cambiare mai, no?
«Vieni con me» gli disse, prendendolo per una manica del trench e guidandolo verso la cameretta del pulcino. Si fermò con lui al centro della stanza e sogghignò, osservandolo curioso, pronto a cogliere la sua reazione.
Le pareti tinteggiate d’azzurro erano ora coperte di soffici nuvolette candide, realizzate con spugnature bianche e argentee.
Castiel le fissò senza espressione per un lungo momento, poi - con sorpresa di Dean - le sue spalle si curvarono in una piega triste ed il suo capo si abbassò.
«Ehi… uhm… non ti ho offeso, vero? Pensavo fosse divertente. E carino» disse il ragazzo a mo’ di scusa, stringendogli con gentilezza un braccio.
«È splendido. Tutto quello che stai facendo per il bambino lo è» rispose lui, accennando un sorriso, che però non riuscì a raggiungere gli occhi. «Vorrei riuscire a fare qualcosa anch’io, per voi» aggiunse, quasi in un sussurro.
Dean sentì il cuore stringersi in una morsa, come se Castiel gli avesse affondato una mano nel petto e l’avesse stretto in pugno. «Ehi» lo chiamò, prendendolo per le spalle e girandolo verso di sé «Tu stai cercando di evitare una nuova Apocalisse. Direi che questo, già da solo, ti fa schizzare in cima alla classica dei migliori papà dell’anno» asserì.
Non aveva mai messo in dubbio che lo stesse facendo per loro. Mai.
L’angelo scrutò i suoi occhi a lungo, come se stesse cercando la sincerità in essi, e alla fine annuì, soddisfatto di qualunque cosa dovesse aver trovato. «Sono riuscito a ritagliarmi un po’ di tempo» disse quindi.
Lui si accigliò, perplesso, poi ricordò. «Per i mobili, vuoi dire? Fantastico» sorrise, sincero «Allora mi cambio e lascio un biglietto a Sam, per quando si sveglierà. Poi possiamo andare».
*°*°*°*°*
La visita al negozio per bambini fu quanto di più imbarazzante Dean avesse mai vissuto. A conti fatti, forse non era stata una grande idea quella di andare lì insieme. Però si rivelò, per alcuni versi, anche piuttosto divertente.
Una florida commessa sulla quarantina, che aveva l’aria di aver già avuto uno o due pargoli tutti suoi per i quali prendere tutta quell’attrezzatura, li accolse subito con un sorriso smagliante. «Buona sera, signori. Posso esservi utile?»
«Ecco, noi…» Dean scambiò uno sguardo imbarazzato con Cas «Pensavamo di fare un giro, prima. Giusto per dare un’occhiata» tentò, sbirciando con quieto terrore la folla di donne di tutte le età che sciamavano per il negozio come api impazzite. Non c’era nessun uomo, o quasi. I pochi mariti presenti seguivano le rispettive mogli con aria sfinita, dando la netta impressione di essere sulla strada del Calvario.
«Oh, ma certo, non c’è problema» rispose, la signora, sempre in quel tono zuccheroso «Non preoccupatevi, non siete la prima famiglia arcobaleno che ci capita».
«Noi non-» iniziò Dean, proprio mentre Castiel chiedeva: «Famiglia arcobaleno?» inclinando la testa nella sua solita posa curiosa.
«Lascia perdere» borbottò il cacciatore, tirandolo da un lato. «Grazie, è stata molto gentile» disse a voce più alta, indirizzando alla commessa un sorriso forzato.
Non era la prima volta che scambiavano lui e Cas, o perfino lui e Sam - cielo, suo fratello, e okay che era alto un metro e un armadio, ma un minimo di somiglianza c’era, che diavolo! - per una coppia gay e, di solito, se la gente non si arrendeva alla prima smentita, Dean scrollava le spalle e si lasciava scivolare tutto sopra. Ma, stranamente, lasciar credere a qualcuno di essere una famiglia - perfino una arcobaleno, sì! - gli sembrava di cattivo gusto.
«Dean?» lo chiamò Castiel, facendolo sobbalzare e solo allora lui rallentò la sua corsa tra gli scaffali.
Duh, quale corsa? Passo spedito, era solo un passo spedito! Non stava certo scappando. E da cosa, poi?
«Cos’è una famiglia arcobaleno?» gli domandò ancora l’amico, ora che erano soli.
Il ragazzo sospirò e le sue spalle si piegarono, allentando la tensione che non si era nemmeno reso conto di aver trattenuto. «Una famiglia in cui i genitori sono entrambi delle stesso sesso. La comunità omosessuale ha una sua bandiera, fatta appunto dei colori dell’arcobaleno» spiegò, riprendendo a camminare, con più calma stavolta. «Ma non è il nostro caso!» aggiunse poi, con un po’ troppa veemenza.
«Infatti. Non siamo due uomini» replicò l’angelo, asciutto.
Dean si fermò di botto, sorpreso, e l’altro finì per andare a sbattere sulla sua schiena. Quando si voltò, scoprì che Castiel era molto più vicino di quanto immaginasse, ma una volta tanto non ci fece caso.
«È tutto ciò che hai da obbiettare?» chiese, sinceramente stupito.
«Io non sono un uomo» rispose l’altro inespressivo.
Ma noi siamo una famiglia, era il chiaro sottinteso.
Dean lo fissò in silenzio, a lungo, con espressione un po’ accigliata, tanto che alla fine l’angelo inclinò di nuovo la testa in quella sua stupida posa da moccioso.
«Dean?» chiese solo, in un modo che poteva voler dire mille cose - ho detto qualcosa che non va?, oppure va tutto bene?, o anche solo perché ti sei fermato? - o nessuna.
«Siamo una famiglia?» gli domandò allora lui, perché doveva sentirlo dire dalla sua voce. Era importante.
Castiel non cambiò espressione, ma in qualche modo lui ebbe l’impressione che il suo viso si fosse addolcito; forse erano solo gli occhi più caldi, quasi avvolgenti. «Siamo due genitori ed un bambino» gli ricordò allora, con molta gentilezza «Sì, Dean, siamo una famiglia».
Lui prese un respiro tremulo e lo espirò lentamente, poi abbassò il capo, scoprendosi a stropicciare un lembo del trench dell’amico.
Questo cambiava tutto. In qualche modo, era come se Cas l’avesse ufficializzato e, per la prima volta, Dean si sentì davvero parte di quella famiglia, di quello che stavano costruendo; accettato come padre del bambino. Castiel aveva scelto lui, che lo fosse davvero o no. Non era solo una questione di necessità, voleva che fosse lui.
Si schiarì la voce, nascondendo un sorriso e l’enorme sensazione di calore che gli si era accesa in petto. «Andiamo a vedere questi mobili» lo esortò, con voce appena un po’ arrochita, tirandolo dall’altra parte del negozio.
Il reparto culle sembrava quello meglio fornito e si aggirarono a lungo tra di esse, soppesando i pregi di questa o quella. O meglio, Dean soppesava, Cas si limitava ad inclinare la testa con perplessità e prendere per buone le osservazioni dell’altro.
Quella che al cacciatore piaceva di più era una culla semplice, in rovere chiaro, senza fronzoli; gli ricordava vagamente quella che era stata sua e poi di Sam.
«Che ne pensi?» chiese all’amico.
«Perché le sbarre?» fece questi, confuso, e forse un po’ preoccupato; ai suoi occhi non doveva apparire troppo dissimile da una gabbia senza coperchio.
«Per evitare che si muova nel sonno e cada giù» spiegò il ragazzo con semplicità.
L’angelo non disse nulla, ma Dean si accorse comunque che c’era qualcosa che non andava in lui. Fu solo quando passarono a visionare i fasciatoii e dovette spiegargli a cosa servivano, che comprese: Cas era a disagio. E molto, anche.
Se ne rese conto solo perché una presa ferrea gli avvolse un polso. Dean si voltò a cercare il suo sguardo, incontrando due occhi blu sgranati e pieni di genuino panico; gli ricordarono molto l’espressione spaurita che aveva avuto la volta che l’aveva portato in quel bordello.
«Oh, avanti, un paio di pannolini non hanno mai ucciso nessuno» sogghignò divertito. Si guardò attorno, per controllare se qualcuno li stava osservando, ma Castiel era stato molto discreto e nessuno si era accorto di come si stesse aggrappando spasmodicamente a lui.
«Sarà umano» mormorò l’angelo e stavolta c’era poco da fraintendere: il suo tono era terrorizzato. «Sarà così umano» deglutì a fatica, gli occhi sempre fissi su quel mobile dalla forma semplice ed innocua «Non so come accudirlo, Dean. La mia preparazione in materia è del tutto inadeguata».
Il cacciatore aveva voglia di sbuffare. Cioè, l’aveva praticamente preso a pugni quando era stato lui a preoccuparsene, e Castiel ci pensava soltanto ora?
«Mi stai bloccando la circolazione, Cas» gli fece presente.
Lui allentò leggermente la prese, ma sembrava incapace di abbandonare quel labile contatto fisico. «Le mie scuse» mormorò.
Dean sospirò e lasciò scivolare la mano nella sua, stringendo forte le sue dita, abbastanza da far scricchiolare le ossa di un normale essere umano. Castiel, ovviamente, non batté ciglio.
«Ascoltami, nessuno nasce sapendo come fare il padre. S’impara» bisbigliò «Faremo i nostri errori, forse gravi, forse no. È inevitabile. Possiamo solo tentare di fare del nostro meglio» asserì «Non so come sarà questo bambino, quanto avrà di umano e quanto di angelico, ma tra tutte e due ce la faremo, okay? Ci aiuteremo a vicenda» gli promise.
«Ne sei certo?»
«Sono sicuro che non faremo niente di meno» Niente di meno del nostro meglio. Perché è così che siamo fatti. Perché è troppo importante. Dean gli regalò un mezzo sorriso rassicurante e l’espressione di Castiel all’improvviso cambiò totalmente.
Era lo sguardo che gli aveva rivolto la prima volta che si erano incontrati - o, perlomeno, la prima che lui ricordasse -, quando aveva capito che Dean pensava di non meritare di essere salvato. Lo sguardo che aveva avuto quando lui l’aveva pregato di ribellarsi al giogo di Zhaccariah, quando gli aveva spiegato che erano la famiglia, le persone ad essere importanti.
Non era la prima volta che Cas lo guardava così, come se Dean avesse appena detto qualcosa di infinitamente saggio ed infinitamente meraviglioso, che lui non aveva mai compreso in millenni di vita. Ed il ragazzo si ritrovò a chinare il capo, senza riuscire ad abbandonare quel tenue sorriso, perché era una cosa che non mancava mai di metterlo in imbarazzo, ma anche di renderlo... felice. Perché era come se Castiel, un angelo, lo mettesse su un piedistallo e lui - l’ultimo degli uomini - sapeva di non aver nessun diritto di starci, ma in qualche modo quello sguardo gli faceva venire voglia di rimanere lì, di comportarsi in modo tale da meritarlo, di continuare a guidarlo.
Il suo cuore perse un battito, inciampò su se stesso e cadde a faccia in giù. [1] Lì, tra gli scaffali di un negozio per bambini, davanti ad uno stupido fasciatoio in rovere chiaro con delle paperelle stampate sui cuscini, per la prima volta, Dean si rese conto di amare Castiel perché lo faceva sentire giusto, perfetto così com’era, e gli faceva venire voglia di diventare una persona migliore. La stessa che vedeva riflessa nei suoi occhi.
Per tutta la vita aveva cercato di essere quello che gli altri volevano da lui - un soldato perfetto per suo padre, un modello per Sammy, un figlio per Bobby -, ma nessuno l’aveva mai fatto sentire così. Castiel aveva il dono di metterlo in pace con se stesso.
L’angelo continuava a guardarlo in quel modo e, con in imbarazzo crescente, Dean si rese conto che si tenevano ancora per mano, come se il tempo si fosse fermato. Con tutta probabilità, invece, dovevano essere passati interi minuti. Non era la prima volta che capitava - Sam spesso gli diceva in tono esasperato che lui e Cas potevano avere discussioni complete fatte di soli sguardi per un tempo che variava da cinque secondi a un quarto d’ora -, ma di solito non stavano appiccicati. Be’, non così tanto, almeno.
Si schiarì la voce, nervoso, e distolse gli occhi dai suoi. «Continuiamo il giro» borbottò sfilando la mano dalla sua presa.
Quando, infine, arrivarono alla cassa, Dean scoprì di aver ordinato molta più roba di quanta fosse nei suoi piani originali, tra la quale una vaschetta di plastica per i primi bagnetti, con tanto di prodotti per il corpo abbinati, un paio di tutine di colori rigorosamente neutri e qualche bavaglino. No, lui non si era assolutamente fatto prendere dallo shopping per mocciosi, okay? E, d’altronde, da qualche parte avrebbe pur dovuto cominciare. Doveva essere preparato per quando il momento sarebbe arrivato.
Con il cofano pieno di acquisti, la fattura dei mobili in arrivo nella tasca posteriore dei jeans e il portafoglio molto più leggero, Dean si mise di nuovo sulla strada di casa.
«Be’, non è andata così male, no?» disse, tanto per rompere il ghiaccio, lanciando un’occhiata alla figura silenziosa accanto a lui.
Castiel strinse le labbra in una pallida linea bianca e puntò lo sguardo fuori dal finestrino appannato; nonostante fosse ormai primavera, una volta tramontato il sole la temperatura scendeva parecchio.
«Mi dispiace di non essere stato più utile» rispose rigido.
In realtà, al ragazzo poco interessava quanto avesse contribuito davvero alle scelte, era solo grato che fosse stato lì con lui. Fare una cosa del genere senza Castiel - rabbrividì involontariamente - lo avrebbe fatto sentire così… solo. E Dean odiava la solitudine.
«È un inizio» replicò incoraggiante.
La testa di Cas ebbe un piccolo guizzo, fu qualcosa di a malapena visibile, come un gatto acciambellato sul sofà che drizza le orecchie dopo aver sentito l’impercettibile corsa di un topo dentro il muro, ma Dean lo notò comunque.
«Potresti… tra qualche giorno arriveranno i mobili e… se riesci a ritagliarti un altro po’ di tempo…» si affrettò a dire, prima che volasse via «Sì, insomma, potresti darmi una mano a montare la culla. Se ti va. Sai, è una specie di rituale per neo-papà» tentò un sorriso storto che, in realtà, sembrò proprio quello che era davvero: una smorfia imbarazzata.
L’angelo lo scrutò per un lungo istante, con uno di quegli sguardi muti ed insondabili. «Lo farò» promise, tirando fuori con infinita attenzione l’ovetto da una tasca del trench.
Intuendo l’antifona, Dean accostò alla meno peggio sul ciglio della strada e Castiel gli passò il pulcino.
«Devo andare» sospirò, le mani ancora ferme a trattenere quelle del cacciatore attorno all’ovetto.
Il ragazzo annuì. «Lo so».
«Ora vado» gli assicurò, ma rimase esattamente lì dov’era; la scena doveva essere piuttosto comica a vedersi dall’esterno, sembrava l’inizio di una barzelletta: ci sono due uomini in macchina con un uovo in mano…
«Cas» lo chiamò Dean «Vieni quando vuoi, okay? Anche nel bel mezzo della notte, anche solo per passare a salutarmi e toccare un attimo il cosino piumoso. Quando puoi. Torna a casa appena puoi».
Solo allora lui riuscì a volare via.
[1] Citazione leggermente rivisitata di
Mangia, prega, ama - Una donna cerca la felicità di Elizabeth Gilbert.
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