[Hey! Say! JUMP] Sanagi - Capitolo 06

Nov 20, 2012 00:38

Titolo: “Sanagi” (Crisalide)
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Chinen Yuri, Takaki Yuya, Inoo Kei, Yabu Kota, Yaotome Hikaru
Pairing: Takachii, Inoobu, Hikachii
Warnings: Slash, Non-con, Death!Fic, AU, Underage, Violence
Word Count: 21.113 fiumidiparole
Rating: NC-17
Prompt: 135. “Ci sarà sempre un mostro.”
NdA: Storia scritta per la challenge bigbangitalia, per il set AU della think_angst e per la 500themes_ita. La storia è un sequel di “Yami wo ukeire futatabii asa kuru”, di simph8. Sempre di simph8 è il gift alla storia, il fanmix “The birth of a butterfly”, che potete scaricare qui (bellissimo fanmix, aggiungerei. Grazie <3).

06 - Kumo no Ito

“Ogni sogno ha il suo tempo per morire”
[Cape of Storms, Hyde]

Kei camminava lentamente.
Cercava di tenere a mente le immagini di poche ore prima, a casa.
Kota quella sera ci aveva provato di nuovo, e questa volta con successo.
“Kei, guardami... sono io, Ko. Non ti fa paura se è il tuo Ko, vero?”
No, non gli faceva paura se era il suo Ko. Gli bastava focalizzarsi sul suo viso, ignorando la sensazione di fastidio dentro di sé e concentrarsi invece sul piacere che provava nell’essere così vicino al corpo del fidanzato.
“Kota, voglio che mi sposi.”
“Certo che ti sposo, amore mio.”
“E possiamo avere un bambino?”
“Posso prenderne uno di quelli abbandonati dai loro genitori. Come Yuri.”
“Ah... ma poi non dobbiamo fargli del male, vero? Non come Yuya.”
“No, non come Yuya. Gli vorremo bene, saremo i suoi papà. E saremo una famiglia.”
“Voglio anche un gatto. E una casa con il giardino.”
“Mi dispiace, non posso permettermi una casa con il giardino. Però avrai il tuo gatto, te lo prometto.”
Kei camminava, e cercava di pensare a lui e a Kota insieme, in una bella casa, con un bambino che correva in giro per le stanze chiamandolo papà.
Sì. Gli piaceva quella sensazione, gli piaceva quell’idea.
Amava Kota, avrebbe voluto davvero costruire una famiglia con lui e vivere per sempre felici e contenti.
Come le favole, sì.
Era andato al conbini a prendere qualcosa per la cena. Kota aveva insistito per accompagnarlo, ma lui si era rifiutato. Il più grande era tornato a casa stanco, e gli aveva detto di rimanere a riposare, che il conbini era vicino, che non ci sarebbero stati problemi.
Non erano che poche centinaia di metri, ma Kei cominciava a sentire un brivido percorrergli la schiena.
Aveva già fatto buio, era da solo e per strada non c’era quasi nessuno.
E lui aveva paura.
Non manca tanto a casa, Kei. Non devi avere paura, fa’ come ti ha insegnato Ko. Uno... due... tre...
Era arrivato al sei, quando sentì delle mani posarsi sulle sue spalle, e tirarlo fino a che non sbatté contro un muro di cemento grezzo, colpendo la testa, facendosi male.
E sentendo come se il suo cuore si fosse improvvisamente fermato.
“Ciao, bella ragazzina.” mormorò lo sconosciuto, ma lui non lo stava nemmeno ascoltando.
“Ciao, ragazzina...”
“Ora ci divertiamo un po’, ok?”
“Andiamo, lo sappiamo che è quello che vuoi anche tu...”
“Apri quelle gambe, da bravo...”
Kei sentì il respiro accelerare, e contare non serviva più a niente.
Era nel più puro terrore.
Ma si ribellò, perché era certo che non sarebbe riuscito a sopravvivere se quell’individuo avesse ottenuto il suo scopo.
Graffiò, picchiò, e alla fine riuscì a dargli un calcio e a farlo cadere, approfittandone per scappare.
Corse, corse il più veloce possibile, di tanto in tanto incespicando nei propri passi e cadendo, ma strisciando sull’asfalto ruvido fino a che non si rialzava e ricominciava a correre.
Mentre le voci nella sua testa lo inseguivano.
“Questo è proprio un piacere farselo, eh?”
“Cosa c’è? Perché piangi? Non verrà nessuno a salvarti, puttanella.”
Pianse e la vista gli si annebbiò, ma non gli importava.
Raggiunse, in qualche modo, il portone di casa, aprendolo velocemente e correndo fino al suo appartamento, chiudendosi la porta alle spalle e dirigendosi subito in cucina, mentre sentiva i passi di Kota che lo raggiungeva.
“Kei?” lo sentì chiamare, ma non gli rispose.
Frugò in uno dei cassetti, fino a quando non tirò fuori quello che stava cercando.
“Kei!” urlò il fidanzato, guardando prima il coltello nelle sue mani e poi le ginocchia con i pantaloni strappati e macchiati di sangue. “Che cos’è successo? Tesoro... tesoro posa quel coltello.” gli disse, avvicinandosi e posandogli una mano sul braccio.
“Non toccarmi!” strillò lui, la voce acuta, la paura che tornò a scorrere nelle sue vene, mentre agitava il coltello davanti a sé, come per proteggersi, mentre tutto quello che voleva era farsi del male. “Tu sei come loro! Siete tutti uguali. Volete tutti farmi del male, volete tutti usarmi, io... io non voglio, non posso farcela. Basta, basta, basta.” mormorò fra le lacrime, spingendosi contro un angolo della stanza, Kota che lo seguiva con piccoli passi, dosando i propri movimenti.
“Kei, amore mio... non voglio farti del male. Sono io. Sono Ko, tesoro.” gli disse, piano. “Dammi quel coltello.” aggiunse poi.
Kei lo guardò, con gli occhi spalancati per la paura.
“Diccelo, diccelo quanto ti piace.”
“Amore ti prego, dammi quel coltello.”
“Non credo che camminerai per un po’, sai piccola sgualdrina?”
“È finita Kei. Io non ti farò del male, te lo prometto.”
“Torneremo a prenderti. È stato divertente in fondo.”
“Amore?”
“Torneremo a prenderti.”
“Kei?”
“Torneremo.”
Kei fece un passo in avanti, trattenendo a stento i singhiozzi.
Vide quella mano grande, da uomo, tendersi verso di lui.
Ci sarebbe sempre stato un mostro pronto, all’agguato, in attesa di fargli del male e di popolare i suoi incubi, perché era questo che i mostri facevano.
La mano lo raggiunse, e lui tese il coltello in avanti.
Quando incontrò resistenza, spinse più forte, fino al manico.
E vide Kota che non aveva mai staccato gli occhi da lui accasciarsi lentamente a terra, tenendosi lo stomaco sanguinante.
“Conta insieme a me, amore, cerca di stare calmo, va tutto bene... uno...”
“U-uno.” mormorò Kei, inginocchiandosi accanto a lui.
“Due.”
“Due... tre...”
“Quattro.”
“Cinque. Sei.”
“Sette... sta calmo Kei, è finita.”
“Sette, otto...”
“Nove...” la voce di Kota era più roca, più malferma, e lui si rannicchiò su se stesso.
“Dieci.” dissero insieme, prima che il più grande chiudesse gli occhi.
Kei era calmo, adesso.
Nessuno in quella casa voleva fargli del male. Era al sicuro.
Nessuno lo avrebbe più toccato, perché lui avrebbe avuto la sua famiglia.
Il suo bambino ed il suo gatto, e forse Kota un giorno avrebbe guadagnato abbastanza da potersi permettere anche una casa con il giardino.
Guardò il corpo del fidanzato, scuotendolo leggermente.
Ma Kota non apriva gli occhi.
Forse un po’ di riposo spettava anche a lui, pensò.
Avrebbe chiamato Chinen, sì.
Yuri avrebbe saputo cosa fare.

***

Yuri camminava verso casa con gli occhi spalancati.
Non riusciva ancora a credere a quello che aveva appena visto.
C’era sangue, sangue ovunque.
Gli era sembrato di tornare al periodo in cui era in quel capannone, quando la morte pareva non avere mai un senso.
Anche quella morte non aveva un senso.
Anche il cadavere di Kota disteso a terra in cucina non aveva un senso.
E Kei che parlava, parlava, parlava senza sosta, e gli diceva che Kota non si rialzava, che non apriva gli occhi, che dovevano svegliarlo, perché aveva promesso che lo avrebbe sposato.
Poi aveva parlato di bambini, di gatti. E di un giardino, forse.
Chinen aveva sempre saputo che l’equilibrio mentale di Kei era appeso ad un filo.
Non sapeva quanto sottile però, e non sapeva quanto profonda sarebbe stata la caduta una volta spezzato.
Avrebbe voluto poter fare di più per lui.
Ma l’aveva abbracciato e basta, stupito che l’altro si fosse lasciato toccare.
E poi se ne era andato, chiamando la polizia.
Avrebbero capito, ne era certo.
Avrebbero capito che Kei non era in sé, avrebbero capito che sarebbe dovuto andare in un posto dove potessero aiutarlo.
Perché nessuno di loro poteva. Non quando persino Kota aveva fallito.
L’aveva amato. Aveva fatto di tutto per renderlo felice.
E alla fine, quello stesso amore l’aveva ucciso.
Mise la chiave nella toppa, stanco, distrutto, solo con la voglia di andare a dormire senza doversi più svegliare.
E quando mise piede in salotto, pensò di essersi perso qualche passaggio, e di essere piombato direttamente in un incubo.
Hikaru aveva gli occhi socchiusi, segnati dalla rabbia e leggermente umidi.
Yuya, di fronte a lui, sorrideva.
Non era un sorriso sarcastico. Non era il suo sorriso infantile, quello che Yuri amava, quello di quando lo prendeva in giro o gli raccontava di qualcosa di particolarmente stupido che aveva fatto.
Era un sorriso rassegnato.
“Ciao, Yuri.” gli disse, con tono fermo.
Il più piccolo fece un passo avanti, fissando la mano di Hikaru.
Ne aveva avuto abbastanza di coltelli, per quella notte.
“Hikaru, che cosa stai facendo?” chiese, piano, ignorando invece il più grande.
“Ti sto portando via di qui, Yuri. Ti sto portando via da quest’animale. Ti sto dimostrando che per te c’è qualcosa di meglio di questa prigione, là fuori. Con me.” gli spiegò lui, con la voce che tremava, e lo sguardo che altalenava fra gli altri due, senza sosta.
“Hikaru... molla quel coltello. Ti farai male e basta.” sibilò Chinen, avvicinandosi ancora.
“Oh no, lascialo fare! È così divertente vedersi puntare contro un’arma nel modo in cui io gli ho insegnato a fare. Fagli avere il suo momento di gloria.” s’intromise Yuya, rimanendo fermo di fronte allo shatei, troppo vicino al coltello che l’altro teneva in mano.
“Sta’ zitto. Yuri, non devi più aver paura. Pensa a che cosa voglia dire... una vita senza di lui, senza il pensiero di dover tornare in questa casa, senza che nessuno ti faccia più del male. È finita, Yuri. È finita per sempre.”
L’altro si avvicinò ancora, calcolando bene le distanze.
Sentiva il cuore battergli in gola. Non poteva rischiare.
“Hikaru... io voglio rimanere qui.” disse piano, alzando le sopracciglia e tentando di assumere un’espressione convincente.
“Hai visto? Te l’avevo detto che non se ne voleva andare!” esclamò lo yakuza, il sorriso fattosi improvvisamente sornione. “Che vuoi che ti dica... evidentemente non l’hai scopato bene abbastanza da impressionarlo.” aggiunse, quasi divertito di fronte allo sguardo smarrito di Yaotome.
“Yuri non... non dire stronzate. Non puoi davvero voler rimanere con lui.” mormorò, corrugando la fronte, come a domandarsi come fosse possibile una cosa del genere. Poi volse lo sguardo in direzione del più grande, con disgusto. “Bene. Vedo che il tuo lavaggio del cervello ha funzionato alla perfezione. Ma sono certo che non ci metterò molto a fargli capire quello che gli hai fatto nel corso degli anni. Spero solo di riuscire anche a fargli dimenticare della tua esistenza.” sibilò.
Chinen rimase come congelato sul posto, mentre di fronte a lui la scena sembrava svolgersi a rallentatore.
Yuya perse la sua espressione spavalda, sostituita finalmente da una paura fin troppo tardiva.
E poi vide il coltello di Hikaru affondare.
Fece un rumore strano, che a Yuri non piacque.
Era lo stesso punto, si rese conto, in cui Kei aveva accoltellato Kota.
Lo trovò uno strano scherzo del destino.
Il cadavere di Kota si sovrappose nella sua mente al corpo di Yuya, mentre quest’ultimo lanciava un grido di dolore.
Non lo aveva mai sentito urlare prima d’ora, e nemmeno quello gli piacque.
E Hikaru rideva.
Rideva di fronte a quello che aveva fatto, rideva con convinzione, come se si sentisse un eroe per aver liberato il mondo dalla presenza di un inutile scarafaggio.
Rideva, e non si accorse di Yuri alle sue spalle.
Quando si voltò, probabilmente vide solo una figura indistinta, mentre il più piccolo afferrava velocemente il pesante posacenere dal tavolino di fronte al divano e glielo spaccava sulla testa.
E poi un altro colpo.
E poi un altro. E un altro. E un altro.
Si fermò solo quando sentì la voce di Yuya chiamarlo. E allora guardò Hikaru, e vide il sangue su di sé e brandelli di carne in giro per la stanza, addosso a lui, attaccati ancora al posacenere.
Lo lasciò cadere a terra.
Poi parve come riaversi, e si avvicinò a Takaki, inginocchiandosi di fianco a lui, fissandolo come se non sapesse cosa fare.
Il più grande era pallido, sudato. Si mise una mano all’altezza dello stomaco con una smorfia, senza guardarlo negli occhi.
Yuri si morse un labbro, chinandosi su di lui, mettendogli un braccio intorno alle spalle, come a volerlo aiutare a rialzarsi.
“Lascia stare.” lo fermò l’altro, brusco.
“Chiamo un’ambulanza, Yuya. Siamo ancora in tempo.” gli disse, concitato, allungando il braccio per afferrare il telefono dimenticato sul divano.
“Ho detto di lasciar stare stupido ragazzino! Non ne vale la pena!” urlò ancora, per poi stringere i denti, colto da una fitta.
“No, maledizione! Mi hai dato ordini per gli ultimi tre anni, adesso facciamo le cose a modo mio!” ribatté, con il respiro pesante, mentre chiamava l’119 e dava l’indirizzo dell’appartamento, cercando di mantenere la calma.
Chiusa la telefonata rimase in silenzio, in attesa, mentre Takaki lo guardava male.
“Sei il solito testardo... avresti dovuto lasciarmi morire. Saresti stato libero, no?” inveì contro di lui, alzando una mano per colpirlo su un braccio, ma l’altro parve accorgersene a malapena.
“Non mi interessa. Mi hai chiesto l’altra sera se volessi rimanere qui, e io ti ho risposto di sì. Che senso avrebbe adesso lasciarti morire?” mormorò, con voce roca, fissando la ferita sul suo stomaco e prendendo quasi distrattamente ad accarezzargli una spalla.
“Sei più masochista di quanto credessi, Yuri. Per quale diamine di motivo vuoi rimanere qui?” chiese, aggrottando le sopracciglia. “Io ti picchio. Ti stupro. Ti faccio del male. Sono già stupito del fatto che non abbia tentato tu stesso di uccidermi, ma questo...” scosse la testa. “Sei davvero un idiota.”
Chinen si morse un labbro, sentendo le lacrime cominciare a rigargli il volto.
Guardò il cadavere di Yaotome steso in terra, la testa mutilata, il suo sangue ovunque.
Ripensò a quanto più freddo fosse stato nell’uccidere i suoi genitori, e si chiese il perché di tanta ferocia.
Ma lo sapeva, in fondo.
Lo aveva saputo ogni giorno dell’ultimo anno, lo aveva saputo quando Yuya l’aveva portato fuori a cena per il suo compleanno, quando gli aveva regalato quel maledetto libro, quando gli aveva detto che avrebbe provato a fare sesso con lui senza fargli troppo del male.
Ripensò al cadavere di Kota, e a quello che Kei avrebbe dovuto passare da ora in avanti.
Da solo, senza la persona che amava.
E lui non era disposto a fare quella stessa fine.
“Sei tu l’idiota, Yuya. Perché se avessi continuato a comportarti con me come facevi i primi tempi, allora sì che ti avrei lasciato qui a morire come un cane.” gli disse, fra i denti.
“Che cosa vuol dire? Non mi sembra di aver cominciato a portarti i fiori tutti i giorni, no?”
“Ma ti preoccupi per me. Puoi anche fingere che non sia così, ma so che lo fai. E io ho... ho cominciato a...” tacque, improvvisamente, arrossendo. “Possiamo parlarne quando starai meglio.” si affrettò a dire poi, mordendosi un labbro.
Yuya parve rifletterci per un secondo.
Poi sorrise prendendo un respiro profondo, a fatica.
“Sei importante, per me. Te l’ho detto, moccioso, io...” disse, poi sbatté più volte gli occhi, chinando la testa all’indietro.
“Yuya, sta zitto dannazione! Non ti sforzare!” urlò, nel panico.
Takaki non rispose. Yuri gli prese la mano e la strinse, mentre cominciava a sentire in lontananza quello che sperava essere il suono della sirena.
“Non lasciarmi adesso! Ti amo, idiota!” inveì contro di lui.
Yuya continuò a tenere gli occhi chiusi.
E lui pianse. Pianse stringendogli la mano, pianse mentre entravano i paramedici, pianse mentre saliva con lui sull’ambulanza.
Non gli lasciò mai la mano. Non poteva farlo proprio adesso.
Takaki l’aveva comprato, era suo e basta.
Ci sarebbe sempre stato un mostro dentro di lui, ma era proprio quel mostro al quale Yuri si stava attaccando con tutte le sue forze, proprio quel mostro che doveva rimanere lì cosicché lui potesse finalmente liberarsene.
Yuri apparteneva a Yuya, ma in quel momento, era lui che non voleva lasciarlo andare.

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