Titolo: Also when 'tis cold and drear
Parte: 6 di 10 (già completa)
Autore: quest'autrice incredibile risponde al nome di
garonne e io vi prego - laddove le capacità linguistiche ve lo consentano - di leggerla in originale (inglese) perché è il Bene. Seguitela, lurkatela, pedinatela, ma scoprirete fin troppo presto che non potrete più farne a meno ._.
Fandom: Sherlock Holmes, che razza di domande.
Rating: R (verso la fine)
Riassunto: Nei primi mesi della loro conoscenza Holmes e Watson si studiano l'un l'altro a distanza, osservandosi e ponendosi delle domande. Contiene lunatici poeti aristocratici, cene di Natale, un'imbarazzante quantità di nebbia e neve e altre amenità.
Note d'autore: POV alternati.
Note della traduttrice sclerata: Holmes e Watson sono due idioti con una spaventosa cotta l'uno per l'altro a cui far fronte. E tutto questo in un vittoriano impeccabile e perfetto che spero di aver reso anche solo a metà e... /o\ Oddio devo fangirlare quest'autrice, non ci posso far nulla ._.
Si tratta di una traduzione del testo originale (
6 - December fog (b)) - acconsentito a farmi tradurre
qui.
Per il resto potrei darmi al fangirl più esasperato, perché non leggevo qualcosa in grado di farmi piangere amore in questo modo dai tempi dell'insuperabile e insuperata Katye (tradotta dalla altrettanto splendida
Melina cosa aspettate a correre a leggere io non lo so) piange amore puro.
Chiedo scusa per il ritardo, ma la vita universitaria mi sta rapendo di nuovo e sto avando anche una crisi sentimentale con il mio fandom. Non escludo che alla fine di questa traduzione io e il fandom potremmo prenderci una pausa di riflessione, mettiamola così. Non che io lo lasci per sempre, no. Ma per un bel po', questo sì.
Angolino dello spam:
qui, festeggiamenti vari per le dimissioni del nostro adorato premier, e anche un po' di terrorismo: " Avrei immaginato con meno fatica che Cip e Ciop facessero un comunicato stampa neo-nazista dove ci rendessero edotti sul loro progetto di epurazione raziale, che i neutrini attraversassero il tunnel mossi a compassione dalla povera e incompresa Mary o che la Moratti e Pisapia convolassero finalmente a giuste nozze. E invece no. Il buon Silvio mi si dimette."
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December fog (b)
La mia fidanzata mi conosceva come Escott, un giovane fontaniere di prospettive. Era una cameriera che rispondeva al nome di Agatha Trent, con la non trascurabile attrattiva di essere impiegata in casa di Charles Augustus Milverton. Disgraziatamente, pareva fosse decisamente più incline a chiocciare col sottoscritto sui pettegolezzi delle colonne dei settimanali piuttosto che sulle abitudini di quest'ultimo. Nel corso di qualche interminabile passeggiata serale, ad ogni modo, riuscii a guadagnarmi la grande maggioranza delle informazioni cui anelavo circa gli interni dell'abitazione di Milverton, così come un'intima e approfondita conoscenza dello scandalo che aveva coinvolto un'attricetta da sala nei suoi più sordidi dettagli.
Due giorni dopo l'aver confessato il mio fidanzamento a Watson, ero quasi sul punto di procedere al prossimo stadio del piano. Questa consapevolezza mi dava le capacità di tollerare l'incontro con la mia fidanzata quella sera con un sentimento meno nauseato del solito.
La ragazza in questione mi aspettava come sempre alle porte della cucina delle Appledore Towers. Chiusi gli occhi al momento di baciarla, pure fu impossibile convincere me stesso che lei fosse Watson, dal momento che era più bassa di quasi una testa intera e - sebbene coltivasse dei baffi sul labbro superiore - questi non erano niente in confronto alla magnificenza di quelli di Watson.
D'altra parte, non credevo affatto esistesse nulla comparabile al calore del tocco del mio amico, alla fiera urgenza del suo abbraccio--
«Che problema c'è, tesoro?» domandò Agatha, roportandomi bruscamente alla realtà.
Sono sempre stato un attore consumato, e non ebbi alcuna difficoltà a convincere la regazza del mio supposto affetto. Non avevo la minima illusione, ad ogni modo, che convincerla della mia agiatezza non avesse giocato un ruolo altrettanto importante, e le mie dubbie attrattive fisiche presumibilmente nessuno. Lo sforzo costante, comunque, sarebbe stato di gran lunga meno sfiancante non fosse stato per la persecuzione del pensiero di Watson e le montagne di torte di carne che Agatha persuadeva la cuoca a preapararmi.
Quel giorno, quando Agatha - chiocciando come sempre - mi condusse in cucina, il mio calvario si scoprì consistere non già in una torta di carne ma in un pasticcio della Cornovaglia.
«Ho messo da parte una piccola specialità, Aggie,» disse la cuoca quando entrammo. «Sapevo ci sarebbe stato il tuo giovanotto, questa sera».
Ero disperato ma non sorpreso nel constatare che, come sempre, la loro idea di piccola differisse radicalmente dalla mia. Disgraziatamente Agatha era dotata di un appetito vorace, e si dava il caso fosse semplicemente incapace di accettare l'idea che il suo giovane accompagnatore potesse mangiare meno di lei. Cominciai a muovermi discretamente alla volta della finestra, dall'altra parte della quale sapevo dovesse essere legato il cane da guardia di Milverton. Era sempre stato particolarmente entusiasta dei miei doni.
«Il cane fa sempre tanto di quel baccano quando sei in giro, tesoro,» osservò Agatha. «Credo che tu gli piaccia».
«Non importa,» dissi fermamente, «preferisco comunque che tu lo tenga legato, voglio poter circolare libero per il giardino, è meglio che io esca dalla parete di fondo, lo sai».
«Giusto,» approvò la cuoca. «Mica ci vuoi che il padrone veda che ti porti un giovanotto intorno, Aggie. Ah, mi ricordo ancora quando io e Higgins c'avevamo la vostra età...» si voltò, con un lieve sospiro.
Sgranocchiai un angolo del pasticcio, giusto per salvare le apparenze, e mi domandai quale dovesse essere adesso la circonferenza del signor Higgins. «Ad ogni modo, penso di averlo visto la scorsa notte. Il vecchio Milverton, intendo. Non temete, non mi ha notato».
«Non sarebbe potuto essere lui in ogni caso,» disse Agatha. «Si ritira sempre alle dieci e mezza, puntuale».
Quella era esattamente una delle ultime informazioni di cui avevo bisogno per cominciare a ipotizzare un piano d'azione, e quella sera - mentre passeggiavamo sul bordo di Hampstead Heath - qualche cauto sondaggio mi concesse di ottenere i dettagli necessari perché i restanti pezzi del piano andassero al loro posto. A quel punto ero perfettamente in grado di affrontare con tranquillità una descrizione dettagliata della nuova tiara della Principessa del Galles, nel mentre che la grande maggioranza del mio cervello era assorbita nel terminare gli ultimi ritocchi del mio piano.
Con mio grande sollievo Agatha non mi infliggeva mai discussioni sul nostro matrimonio, dal momento che lei stessa riteneva sarebbe dovuto avvenire molto più in là, quando io avessi avuto abbastanza soldi da parte, per dirla con le sue parole.
Mi domandai oziosamente come chiunque potesse resistere alla tortura di una vita coniugale con una chiocciante, frivola idiota del genere. C'era un gran numero di donne che non rientrava nella categoria, certamente. Sia come sia non riuscivo a immaginare la cosa in maniera tanto migliore, se a fronteggiarmi ogni mattino al tavolo della colazione fosse stata una delle donnine dolci che attiravano sempre l'occhio di Watson. Dopo mesi di osservazione conoscevo i suoi gusti alla perfezione: gentili ragazze bionde con sorrisi dolci e un'aria fragile. Non è possibile immaginare qualcosa di tanto diverso da me neanche a sforzarsi.
Sarebbe stato un marito eccellente, riflettevo, mentre Agatha cianciava della festa in giardino della vedova Duchessa di York. Me lo figuravo già, seduto accanto al fuoco nelle fredde serate invernali, i bambini sotto le coperte ben rimboccate, la sua dolce, bionda moglie a rammendargli i calzini o qualche altra idiozia del genere, e lui a guardarla dalla punta del suo giornale - più o meno come lo avevo colto a fare di tanto in tanto con me, a conti fatti. Scacciai il pensiero e lanciai uno sguardo ad Agatha. Presumibilmente era lei anche un'eccellente rammendatrice di calzini, ma si trattava di un attributo cui ero preparato a rinunciare in una compagnia per la vita.
Vidi Agatha tornare alle cucine delle Appledore Towers, e mi diedi alla fuga con sollievo dopo un altro casto bacio sulle labbra. Era fantastico poter fare ritorno a Baker Street, che era felicemente libera da rammendatrici di calzini in tutte le moltitudini delle sue forme, sebbene avesse al suo interno un dottore invalido di guerra che aveva passato gli ultimi giorni vagando come un'anima in pena per il luogo in questione con una spaventosa espressione di allegria e buonumore totalmente forzata sul volto.
«Buona sera, Holmes. Posso ritenedere che tu abbia trascorso un paio di piacevoli ore in compagnia della tua fidanzata?» disse, con quello che evidentemente desiderava essere un sorriso spensierato.
Gli avevo deliberatamente nascosto la vera natura del nostro fidanzamento, dal momento che avevo ogni ansia di bloccare sul nascere qualunque tentativo di ripresa dell'orrenda conversazione che avevamo iniziato da quel momento di debolezza al London Bridge. Mentirei, a conti fatti, se provassi a sostenere che quest'ultima motivazione non abbia giocato una gran parte nella mia improvvisa - e piuttosto dovuta al panico - decisione di rivelare l'esistenza di una innamorata. Quella notte, ad ogni modo, aveva un aspetto così miserabile che il mio stomaco si contorse dalla colpa.
«Watson, ritengo che sarei dovuto essere... leggermente più onesto con te riguardo al mio fidanzamento. In effetti, l'altra parte è la cameriera di Milverton».
Watson mi fissò. Pensai di cogliere una scintilla di speranza nei suoi occhi spalncati, sbalorditi, sebbene fosse sparita prima che potessi esserne certo, e tentò un sorriso; un educato, convenzionale sostituto di quello caloroso che avevo imparato ad amare.
«Ebbene, sai che non sono uomo da anteporre le norme sociali alla felicità. Ma mi piacerebbe incontrarla».
«Dubito fortemente che lo farai mai, dal momento che intendo sparire dalla sua vita stanotte stessa».
Il suo sorriso allegro lasciò il posto ad uno sguardo sbigottito.
«Avevo bisogno di informazioni,» ammisi, con riluttanza, dal momento che potevo prevedere pacificamente quale sarebbe stata la sua reazione.
«Ma la ragazza, Holmes!»
Mi strinsi le spalle, nascondendo il mio dispiacere alla sua espressione colma d'orrore. «Come risultato del mio fidanzamento, adesso conosco la casa e le abitudini di Milverton come il palmo della mia mano. Non vedo come altro avrei potuto ottenere queste informazioni. Oltretutto, ti posso assicurare che ho un odiato rivale che arde dalla voglia di prendere il mio posto. Non c'è nessuna forma di coinvolgimento emotivo da parte di lei».
«E da parte tua?» domandò Watson, sebbene nell'atto stesso di dirlo sembrò desiderare di mordersi la lingua.
Per un attimo fui confuso. Come al mondo Watson poteva immaginare che chiunque potesse ottenere la mia attenzione, da quando lo avevo incontrato?
«No, certo che no». Vedendo che aveva intenzione di proseguire il discorso, lo interruppi sul nascere, «Watson, ho intenzione di introdurmi in casa di Milverton stanotte».
La mascella si spalancò, e restò a fissarmi in manifesto sgomento. «Per l'amore del Cielo, Holmes, non puoi averlo detto! Pensa alle conseguenze, qualcosa dovesse andare storto - il carcere, l'arresto, la tua reputazione in rovina, la fine della tua carriera in disgrazia..."
«A conti fatti, nessuna differenza con le prospettive che si trova davanti il signor Wright. Pure, di certo non possiamo pretendere che si introduca in casa di Milverton con le stampelle e cieco di un occhio. Come potrei agire se non al suo posto, in un caso del genere?»
Ero abbastanza impreparato al fiotto di affetto che apparve sul volto di Watson quando sentì le mie parole.
«Hai ragione, certamente, mio caro Holmes. Quando partiamo?»
Fu il mio turno di essere assalito dalla tenerezza. Nondimeno, non potevo far altro che obiettare.
«Tu non vieni, Watson. Non c'è ragione di esporci entrambi».
«A dire il vero, vengo. Sono stato io a portarti questo caso, dopotutto. Non potrei mai perdonarmi se fossi la causa della tua caduta. Oltretutto, Wright è un vecchio amico».
Aveva assunto la più ostinata delle espressioni del suo repertorio, una di quelle che avevo avuto appena una manciata di occasioni per goderne prima di quel momento. Trovo che il termine godere sia quello più appropriato in questo contesto pure, dal momento che godo di tutte le espressioni di Watson.
«Molto bene,» dissi lentamente. «Non posso negare che apprezzerei la tua compagnia».
«Dopotutto,» ribattè Watson, con una punta di sorriso, «non troverei così spiacevole un soggiorno nella cella di una prigione, se dovessi condividerla con te».
«Non sarà questo il caso,» affermai con fermezza, prima di alzarmi in piedi, impaziente di dare inizio ai preparativi. «Ho spesso ritenuto che sarei stato un criminale migliore di tutti quelli che ho incontrato finora, e posso assicurartelo, questa operazione sarà pianificata ed eseguita senza margine di errore».
Andai a raccogliere il mio kit per lo scasso - quello del quale il mio amico era rimasto tanto scioccato, appena qualche mese prima - nel mentre che di spalle gli davo le istruzioni per mascherarsi e vestirsi adeguatamente.
Due ore dopo, stavamo camminando lungo l'Hempstead Heath, avendo congedato la nostra carrozza un centinaio di piedi più lontano. Un vento pungente dissipava la nebbia della brughiera nella nostra strada, e fummo grati dei cappotti. Mi venne in mente d'improvviso che stavamo percorrendo esattamente lo stesso percorso che avevamo intrapreso io e Agatha nella nostra passeggiata, per quanto in sostanzialmente diverse e meno spiacevoli circostanze! Lanciai uno sguardo a Watson. Mi restituì un sorriso, chiaramente - come il sottoscritto - più eccitato che spaventato.
Avevo già un piano d'azione che non sarebbe potuto essere più chiaro nella mia mente: sapevo con precisione in che modo avremmo dovuto procedere dalla serra al salotto, e di qui allo studio di Milverton, il quale era rifugio sicuro di tutti i documento del suo abominevole mercato. Il cane da guardia era legato, grazie ad Agatha, e dunque - appena passate le Appledore Towers - atterrammo sul selciato senza incidenti e ci immettemmo nelle ombre della villa.
Fu lavoro di un secondo tagliare un buco nel vetro della serra e girare la chiave dall'interno, per quanto ammetterò che i vari sguardi ammirati di Watson aggiungevano una certa dose di piacere in più alla mansione.
Una volta dentro, trovammo la casa immersa nella più totale oscurità. Dopo qualche istante di esitazione, raggiunsi e presi la mano di Watson nella mia. Me la concesse con uno slancio di benvenuto.
Lo condussi tra le piante esotiche e i fiori della riserva, la cui disposizione avevo già memorizzato quando mi ero convinto ad andare a farlo, settimane prima. Dietro la porta del salotto, si era in territorio in cui il bel giovanotto della cameriera non era mai stato autorizzato ad entrare, ma i miei occhi si erano già sufficientemente abituati al buio e fui perfettamente in grado di giungere allo studio, Watson che mi seguiva fiduciosamente da dietro.
Lo studio era immerso nel fumo di tabacco, e giudicai che Milverton lo avesse lasciato appena un quarto d'ora prima. Meno incoraggiante, comunque, era il fuoco che ancora ardeva vivo nella grata, come se qualcuno intendesse ritornare nella stanza.
Lasciai andare la mano di Watson, non senza una certa riluttanza, e alla luce del fuoco che crepitava per la stanza tesi l'orecchio alla porta che dava sulla stanza adiacente. Nessun suono proveniva da essa, dunque conclusi che Milverton dovesse già essersi addormentato. Voltandomi per fronteggiare la stanza, fui deliziato dal notare che Waton aveva preso l'iniziativa di esaminare la porta che dava direttamente sul giardino, sebbene impensierito dall'apprendere che fosse aperta, piuttosto che chiusa e sigillata come Agatha mi aveva informato fosse abitudine in quella casa.
Misi Watson a sorvegliare la porta che dava sul giardino e mi voltai verso l'alto scaffale dove era situata la cassetta verde che eravamo venuti per aprire. In una questione di momenti avevo tirato fuori tutti i miei strumenti di lavoro e mi ero messo all'opera.
Forzare una serratura senza romperla era sempre stato mio peculiare piacere, e a stento mi accorgevo del tempo che passava quando assorbito in questo delicato compito. Alla fine, il gancio si piegò al mio volere, e aprii l'anta, che rivelò un'enorme pila di documenti e pacchi, sconvolgendomi per l'estensione di quel mercato immondo.
Non era possibile leggere nessuno dei loro contenuti alla luce del fuoco, ma prima che potessi prendere la lanterna che avevo portato con me, un rumore sordo proveniente dal corridoio mi mise all'erta sull'imminente arrivo di uno degli abitanti della dimora. Chiusi in fretta l'anta della cassetta di sicurezza, serbai nella mia borsa gli strumenti e mi tuffai dietro le tende della finestra più vicina, trascinando Watson con me.
Restammo in piedi il più immobile che ci fu possibile mentre i passi che avevo già sentito a distanza si facevano più pesanti, e la porta si apriva sulla stanza. Udimmo il suono di un fiammifero che veniva strofinato, e presto la stanza fu completamente illuminata, come fu chiaro dallo spiraglio fra le tende.
Allungai leggermente il collo per vedere dalla spalla di Watson, e notai un piccolo, grasso omuncolo in una giacca rossiccia color fumo, comodamente affondato dietro la scrivania - tra le mani qualcosa con l'aria di un documento legale - che stava accendendosi un sigaro. Si accomodò meglio e iniziò a leggere.
Avevo con ogni evidenza commesso un grave errore di calcolo circa i movimenti di Milverton quella notte, dal momento che quello non poteva essere altri che lui. Stava lentamente girando le pagine del suo documento, sbuffando occasionalmente un anello di fumo in aria, e tutto l'aspetto di uno che sarebbe rimasto seduto ancora molto tempo.
Sebbene la grande maggioranza della mia mente fosse occupata nel trovare un modo accettabile di uscire dal quella orribile situazione, ero a dire il vero piuttosto distratto dalla vicinanza di Watson. Mi era leggermente di fronte, il corpo premuto contro il mio nel tentativo di non sforare dall'angusto spazio che le tende ci consentivano. Era rigido, teso. Cercai la sua mano, e la strinsi, nel tentativo di essere rassicurante, e lo sentii rilassarsi in qualche modo contro di me.
Avrei semplicemente dovuto spostare la mano di qualche pollice, e piegare leggermene il collo, per potere stringerlo tra le mie braccia, perché le mie labbra potessero solleticargli il collo. Resistere alla tentazione aveva la sua difficoltà, ma sapevo bene che non avrei potuto fare nulla del genere, dal momento che ero estremamente conscio della precarietà della nostra posizione, con Milverton solo a qualche iarda da noi, e il rischio della detenzione improvvisamente imminente.
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Nota: Mi sono presa molte libertà con il racconto di Arthur Conan Doyle che riguardava Charles Augustus Milverton - ad ogni modo, tutte queste strette di mano ci sono anche nell'originale!
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